sabato 19 ottobre 2013

RENZI O CUPERLO? NO, GRAZIE

“Il PD è l'unico partito degno di questo nome nel nostro Paese.
L'unico riconducibile ai modelli di partito tipici della democrazia moderna.”
L'abbiamo sentito ripetere più volte, dal segretario, dal premier, dai massimi dirigenti.
Ma è proprio vero?
I partiti politici degni di questo nome, per come li conosco, in un qualunque Stato democratico, quando celebrano il congresso pongono al centro del dibattito la proposta di governo con cui si presentano all'elettorato.
Bersani: destra c'è ma la battiamo Se sono al governo, presentano un bilancio delle cose positive compiute, indicando le priorità per i prossimi passi e la prospettiva in cui si collocano. Se governano in coalizione, spiegano per quali opzioni, diverse da quelle degli alleati, chiedono il voto, e i motivi per cui le ritengono migliori, ponendosi l'obiettivo dell'autosufficienza.
Se infine sono all'opposizione contrappongono il loro programma a quanto ha fatto il governo esponendo i risultati che si prefiggono e illustrandone i vantaggi che ne deriverebbero per singoli gruppi di elettori e per il paese nel suo complesso.

Ritroviamo il PD in questi canoni elementari? Direi di no.
Pensiamo al passato recente: lo ricordiamo bene, credo, ma si fa presto a riassumerlo.
Il PD ha condotto la sua ultima campagna elettorale appena un anno fa. Dopo essere stato otto anni all'opposizione negli ultimi undici e avendo trascorso l'anno precedente in coalizione con il partito di cui era stato all'opposizione, ha ritenuto di non dover spendere una sola parola sul suo programma. La prospettiva, quella sì, l'ha declinata: più occupazione, meno precarietà, più sviluppo, più legalità, più etica nella politica. Si può mai essere in disaccordo? Indicazioni concrete, comprensibili, neanche un po'. Tutt'al più, battute in vernacolo, credendo di conquistare simpatia.
Su questa base alquanto evanescente è stato comunque disegnato con precisione uno schema tattico, di alleanze: da una parte, Italia Bene Comune come coalizione elettorale (di programma? no, su quello si taceva) avendo agganciato SEL sul versante sinistro dello schieramento politico; dall'altra, la coalizione centrista (in competizione per le elezioni) come alleato di governo “anche se si fosse raggiunto il 51%”.
Già in questo frangente dunque avevamo assistito a uno schema che con i moderni partiti politici ha poco (o niente) a che vedere. Se ne forniva però una giustificazione: lo stato di eccezione per la speciale condizione dell'Italia, di avere una destra anomala e tecnicamente eversiva (antistatuale fino ad essere anticostituzionale) nelle mani di un leader come Berlusconi.
Questa condizione speciale rendeva preminente lo schema tattico, ponendo in cima alla lista degli obiettivi quello di liberare il paese dall'ipoteca berlusconiana.

Sappiamo com'è andata. Un terzo dell'elettorato orientato, ancora a due mesi dal voto, verso il PD si è spostato verso l'astensione o la protesta 5S, non trovando convincente la scelta di circoscrivere la proposta politica al solo schema tattico delle alleanze. Tanto più in un momento in cui alla politica si rivolgono domande pressanti per trovare soluzioni, o almeno un sollievo, a una crisi pesantissima.

Dopo la cocente delusione elettorale, il PD era chiamato per statuto a una scadenza congressuale entro pochi mesi. Quale migliore occasione per rientrare nei canoni? Invece ci sono voluti più di sei mesi soltanto per confermare il rispetto della scadenza fissata dallo Statuto ed ora lo si va a celebrare, con una certa fretta e concitazione.
Per dibattere della proposta politica e per richiamare su questa l'attenzione degli elettori? Visto che sono in lizza quattro candidati, nessuno dei quali ha avuto un minimo ruolo nelle vicende recenti, non portandone la responsabilità dovrebbero senz'altro uscire dallo schema. Vediamo dunque se è così.

I principali media dipingono il confronto come un duello a due (Renzi e Cuperlo) dando il primo per vincitore annunciato (front runner). Anche se i sondaggi sembrano dare più chance per il secondo posto a Civati, concentriamoci sui due di cui più si parla.
Di Renzi non ci sarebbe molto da dire. Che parli di prospettiva più che di proposte programmatiche e che si affidi più alle battute che alle enunciazioni puntuali e concrete sulle scelte che intende fare appare evidente a chiunque stia seguendo la vicenda. Lo stesso Renzi non fa nulla per smentirlo.
Siamo dunque nel solco della campagna di Bersani, con maggiore spigliatezza e capacità comunicativa e, soprattutto, con molta maggiore credibilità quando promette il cambiamento. Lo prometteva peraltro anche Bersani (“dove sono stato non ho mai lasciato le cose com'erano”) ma ha fatto la fine che ha fatto.
Sembra invece che il popolo di centro-sinistra (e non solo) sia disposto a credere che Renzi sia in grado di mantenere la promessa. In più, gioca l'effetto cumulativo (che è poi il vero scopo dei sondaggi) che si innesca a favore di chi si crede possa vincere promettendo la palingenesi.

L'altra caratteristica di Renzi che lo colloca totalmente all'interno dello schema “anomalo” del PD che conosciamo è che, oltre a non parlare del programma del suo governo futuro, se non in termini messianici o immaginifici, si tiene alla larga da qualunque discorso sul governo attuale. Cito per tutte la risposta con cui si apre l'”intervistona” rilasciata il 18 ottobre a Aldo Cazzullo sul Corriere: “Chi pensa che da qui alle primarie io faccia il controcanto al Pd, o peggio al governo, si sbaglia. Dobbiamo parlare dell'Italia dei prossimi dieci anni, non della contingenza.” E ho detto tutto.
Gli basteranno questi presupposti per vincere, probabilmente. Dubito però che la vittoria possa essere davvero molto larga. Penso infatti che vi sia un'ampia fetta di iscritti ed elettori del PD che chiede di cambiare schema e di rientrare nella normalità pretendendo spiegazioni, per filo e per segno, su come si potranno evitare i disastri della storia recente, in concreto.
Oltre tutto, è una fetta che per lo più non si fida di chi non dice (ricordate Moretti?) nemmeno “una cosa di sinistra”. Che pensa che se non si hanno le idee molto, ma molto chiare su come impostare soluzioni alternative a quelle indicate dal “Brussels consensus”, che sia Tremonti o che sia Monti, che sia Letta o che sia Renzi, quelle saranno le ricette e quello sarà il sapore delle leggi di stabilità e delle manovre e manovrine che ci attendono – per stare ai tempi renziani – nei prossimi dieci anni.

C'è dunque spazio per Cuperlo, che si presenta come l'alternativa di sinistra tentando di riproporre lo schema ex-ds contro ex-dl? E' da lui che ci si può aspettare un ritorno alla normalità dei partiti (di sinistra) delle moderne democrazie?
Qui mi sembra ci si scontri con l'equivoco più singolare. Cuperlo è una persona stimata da tutti, sostenitori e avversari. Ambisce ad elevare il profilo culturale del partito e, detto un po' a mezza bocca, anche quello etico. Non rinnega la storia PCI(FGCI)-DS ma guarda a una sinistra moderna.
Ottime intenzioni.
A parte però i singoli estimatori personali, in particolare tra chi lo affiancava negli anni della FGCI, i suoi sostenitori sono rappresentati dall'apparato di matrice bersaniana e dalemiana (accomunati nonostante la clamorosa e rancorosa rottura personale) con il contorno delle cordate che fanno capo a Marini e Fioroni.
Un simile sostegno non è senza un prezzo. E il prezzo è tenersi alla larga da qualunque discorso sul governo, sugli schieramenti; è non lanciarsi in nessun esercizio “ad alto rischio” sulle proposte concrete. Solo voli pindarici e “richiami della foresta”, evocativi ma mai impegnativi.
Ora, è del tutto comprensibile che i professionisti della politica che hanno pazientemente scalato i gradini del “cursus honorum” per raggiungere le posizioni ambite (di nomina “dall'alto”), nel momento in cui si profila un radicale ricambio si tengano aggrappati ai referenti a cui debbono la loro ascesa. Non che alcuni di questi, più veloci e più disinvolti, non abbiano agganciato il vagone del vincente annunciato, soprattutto se i loro referenti sono stati veloci e disinvolti nell'agganciarlo per primi. Ma non c'era posto per tutti, quel vagone non ne poteva sopportare più di tanti, pena l'esserne talmente appesantito da perdere tutto lo slancio verso la vittoria. La scelta per il candidato scelto dai loro capi era dunque obbligata.
Ma il “normale” iscritto che aspira a un partito “normale” e cerca risposte credibili ai suoi problemi, può davvero accontentarsi (nel 2013!) di “chiacchiere e distintivi”? Penso proprio che il tempo dell'”appartenenza” come legante fondamentale sia definitivamente tramontato. La domanda è quindi in definitiva quanto siano lunghi i filamenti che si dipanano dalle cordate degli apparati e quanto penetrino nelle maglie del corpo sociale. Non è una domanda di quelle che ci si pone tipicamente per i partiti di sinistra delle democrazie moderne ma i tempi cambiano e non vorrei davvero che il PD fosse anticipatore di una mutazione più ampia, su scala internazionale. Non lo credo, non vorrei neppure trovarmi a doverlo temere.

Ecco, insomma, perché questo che il PD si avvia a celebrare non mi sembra un congresso “normale” per un grande partito della sinistra di una grande democrazia, quale il PD vuole essere.
A meno di non uscire da questo schema che i media ci stanno dipingendo come “senza alternative”, lo schema chiuso nella scelta tra Renzi e Cuperlo.

A un'alternativa, che riporti il PD nella normalità, sta in realtà lavorando Civati. Lo dico senza tacere di essere un sostenitore della sua candidatura. Ma davvero non vedo alternative alla deriva “anormale” che stiamo vivendo. Se non un successo chiaro, e sorprendente per chi segue la corrente, di Pippo Civati.