lunedì 27 febbraio 2012

Solagrital. Un'altra storia da non dimenticare. Nel tramonto di Iorio


La condanna di Iorio è un altro segno della fine di un ciclo politico. Per quanto il centro-destra possa tardare a trarne le conseguenze, il centro-sinistra sarà presto chiamato a responsabilità di governo.
QUALI RISPOSTE AI GRAVI PROBLEMI DEL MOLISE?
Torniamo al programma elettorale. Approfondiamo i dossier. Sulla politica economica e del lavoro, sulla sanità e i servizi, sulle infrastrutture e l'ambiente.
QUALI PROPOSTE DI POLITICA ECONOMICA E DEL LAVORO?
Continuiamo l'approfondimento. Dopo la vicenda dello Zuccherificio questa settimana ci occupiamo di Solagrital.
Anche qui incombe un fallimento (un'udienza si è già tenuta, rinviata a breve). Quello di Arena.
Anche in questo caso, non una questione tra le tante di cui si deve occupare la Regione. Una storia quasi ventennale in cui si rilegge la politica molisana.
Dedicata a chi vuole essere informato e farsi un'opinione. In due puntate.

PREMESSA - 1)
IL DOPO IORIO SI AVVICINA A GRANDI PASSI
Iorio ha commesso il fatto e non lo nega.
La sua difesa nega che il fatto commesso configuri un reato.
Non solo tutti coloro che in queste ore hanno espresso solidarietà (prima sul traguardo l'on. De Camillis), ma anche quelli che tacciono e non lo invitano a dimettersi ritengono. come lui, che il fatto commesso non sia reato.
Si configura perciò UNA QUESTIONE POLITICA, ben prima che giudiziaria. Quale concezione dell'etica pubblica dimostra di avere chi considera normale, “corretto”, perfino “nell'interesse della collettività” (così dichiara Iorio) affidare incarichi per centinaia di migliaia di euro alla società che ha assunto il figlio. Per un rapporto che non ha neppure fatto finta di produrre?
Se resterà abbarbicato a quella poltrona trascinerà con sé nel baratro la sua compagine che si è dimostra sodale, SENZA ECCEZIONE ALCUNA. Per quanto? Fino al 17 maggio? Che ne pensano i suoi successori in lotta, i vari Pietracupa, Vitagliano, Di Sandro, Chieffo?
Il centro-sinistra deve prepararsi a governare senza più esitazioni o furbizie. Chi ha teso la mano, strizzato l'occhiolino, cercato alleanze trasversali faccia un passo indietro. Con quella politica, non c'è più spazio per compromessi.

PREMESSA - 2)
TORNARE AL PROGRAMMA. IN UN QUADRO ANCORA PEGGIORE
Si deve tornare al programma elettorale di Paolo Frattura. Per ripartire da lì e andare avanti alla luce dell'evoluzione dei problemi da affrontare. Un'evoluzione tutta negativa: in pochi mesi si sono già accumulati nuovi disastri. Ne abbiamo parlato in post precedenti, l'ultimo dei quali dedicato alla vicenda dello Zuccherificio, riassunto della miseria della politica molisana. Decine di milioni di euro gettati alle ortiche dopo essersi lasciati scappare l'occasione d'oro dei finanziamenti comunitari per la riconversione. Con l'alibi, che torno a definire ignobile, della difesa del “posto di lavoro”.
La politica economica e occupazionale è una priorità assoluta. C'è bisogno di aiutare una ripresa che significhi creazione di ricchezza, di posti di lavoro, di servizi pubblici e abbattimento della povertà e delle diseguaglianze.

APPROFONDIRE I DOSSIER
POLITICA INDUSTRIALE E DEL LAVORO.
UN'ALTRA STORIA DA NON DIMENTICARE – SOLAGRITAL-ARENA

Continuiamo dunque nell'approfondimento dei dossier. Un altro fallimento eclatante incombe, oltre a quello che si discute il 27 febbraio per lo Zuccherificio. Quello del Gruppo Arena, da cui dipendono le sorti della filiera agricola e in primo luogo della Solagrital e degli allevatori. Il 15 febbraio si è già tenuta la prima udienza, rinviata al 12 aprile per l'esame della documentazione fornita da Arena.
Che sta succedendo? Quale sorte attende i lavoratori di Bojano e del Molise centrale? Che fine faranno le enormi risorse finanziarie che la regione ha riversato per scongiurare la chiusura di uno stabilimento e di una filiera decisiva per quell'economia?
La storia parte da lontano. Inquadrarla a dovere non è semplice perché si intreccia con l'alta finanza, anche internazionale, con la concorrenza dei mercati globalizzati, senza dimenticare gli effetti di fenomeni apparentemente lontani come l'influenza aviaria in Estremo Oriente. Ma in fin dei conti, dopo aver percorso una via apparentemente tortuosa, ci si ritroverà a parlare molisano. A guardarsi allo specchio. Per scoprire, di nuovo, il volto della politica molisana e delle sue miserie.

ANTEFATTO - 1994
LA CRISI SAM - ARENA – COME SALVARE LA FILIERA MOLISANA
Dobbiamo dunque riavvolgere il film della crisi attuale e andare all'inizio della storia.
Il punto di partenza possiamo fissarlo al 1994, quando entra in crisi il Gruppo Arena, di proprietà di una famiglia veronese, secondo produttore avicolo italiano (dopo AIA), con due stabilimenti, uno in Veneto e uno a Bojano. La strada del fallimento sembra segnata, la resistenza nell'area veronese è debole (AIA sembra offrire valide alternative agli allevatori), si pone il problema della sorte dello stabilimento di Bojano (quello di Verona chiuderà in breve tempo).
Per dare un'idea della situazione del mercato, AIA veleggiava al di sopra dei due milioni di polli a settimana (con una produzione concentrata nella pianura padana), Arena poco oltre il milione, per un po' meno della metà lavorati a Bojano; seguiva quindi, sotto al milione, Amadori, che dalla Romagna si era spinto più a sud con uno stabilimento nel teramano.
Quale strada fu scelta allora? Le alternative erano ridotte a due (più una variante): lasciare andare Arena verso il fallimento, affidando le speranze di ripresa alla capacità dei liquidatori di vendere l'attività a qualche imprenditore intenzionato a rilanciare lo stabilimento di Bojano; ovvero, individuare un “salvatore” pronto ad acquistare, prima del fallimento, il marchio e le attività molisane (stabilimento e contratti di fornitura con gli allevatori), dismettendo quelle veronesi. La variante consisteva nella possibilità che la politica entrasse nell'operazione salvataggio, con risorse finanziarie e/o normative.

UN'OPERAZIONE DI SALVATAGGIO ALL'INSEGNA DELLA “MOLISANITA'”
CON VINCOLI POLITICI E SINDACALI.
Contro il fallimento si mosse uno schieramento molto vasto di forze sociali e politiche. Si deve tenere conto del fatto che contemporaneamente si era aperta una crisi seria allo stabilimento Fiat di Termoli dove l'azienda, per ottenere l'introduzione di tre turni supplementari il sabato, minacciava di spostare la nuova linea dei motori negli stabilimenti polacchi (primo caso, apripista di una serie di vicende successive le cui cronache hanno avuto ampia eco). Il collasso simultaneo di Arena e Fiat avrebbe messo in ginocchio la regione.
Occorreva dunque lavorare perché giungessero proposte di acquisto da imprenditori affidabili PRIMA che gli avvenimenti precipitassero, in modo da scongiurare una chiusura i cui tempi sarebbero stati imprevedibili e i danni incalcolabili. Cassa integrazione a zero ore per i dipendenti, quindi meno reddito e incertezza sul posto di lavoro. Ricerca di sbocchi alternativi per gli allevamenti, con le incertezze che ciò comportava ma anche con l'entrata in campo dei concorrenti di Arena che avrebbero potuto impedire sul nascere ogni speranza di rilancio della filiera avicola molisana.
Non ci si limitò tuttavia a questo. Intervennero altri due fattori: le condizioni sindacali (contrattuali) e quelle politiche.
Sindacali: il contratto in vigore a Bojano era quello dell'industria alimentare, mentre la concorrenza applicava quello dell'agricoltura (meno oneroso). Il privato che si era fatto avanti, Amadori (che scommetteva su una sinergia Bojano-Teramo nel rapporto con gli allevatori e nella logistica) poneva come condizione il contratto del gruppo (operai agricoli, non industria).
Politiche: lo stabilimento di Bojano era stato gestito con le modalità tipiche degli insediamenti nel Mezzogiorno, in stretta simbiosi tra impresa e politica (DC): su assunzioni, ruoli di vertice, forniture di servizi gravava il peso di un ferreo “consociativismo” se non di veri e propri diktat dei potentati locali.
Si andò quindi alla ricerca di un diverso imprenditore che fosse disposto ad investire alle condizioni politiche e sindacali del passato (Amadori non lo era) in cambio di un apporto di risorse pubbliche. La formula che doveva nobilitare questo scambio era quella della “salvaguardia della molisanità” e il “cavaliere bianco” che apparve all'orizzonte era Dante Di Dario, proveniente dall'esperienza del sodalizio con la famiglia Patriciello nella Neuromed di Pozzilli. Il piano industriale faceva un passo in più sulla molisanità: puntava su un legame tra marchio Arena e marchio Molise. Regione agreste, garanzia di genuinità, per un rilancio del pollo molisano come pollo di qualità rispetto a quello dei concorrenti.

UN'OPERAZIONE DI SALVATAGGIO CON MOLTE ALCHIMIE FINANZIARIE E MOLTA INGEGNERIA SOCIETARIA.
Mettere in luce questi vincoli, di natura politica e sindacale, è necessario per comprendere l'evoluzione successiva e in particolare le soluzioni di ingegneria societaria (e le alchimie finanziarie) che furono allora adottate e che sono alla base della situazione odierna.
Per illustrarle, occorre partire da una valutazione di quali fossero i punti di forza di Arena che potevano rendere appetibile l'acquisto anche senza la metà “storica”, quella veneta. In primo luogo il marchio, ben distribuito, ben introdotto nella Grande Distribuzione e pubblicizzato a dovere, non solo per il pollo “morto” ma anche, se non più, per quello lavorato, in particolare surgelato. In secondo luogo la logistica, verso il mercato meridionale. Infine, si è detto, il possibile abbinamento al territorio.
Punti di debolezza erano invece dati dai costi di produzione non competitivi. Sia per un maggior prezzo locale dei mangimi sia per i costi di gestione, gravati, rispetto alla concorrenza, dai vincoli a cui abbiamo accennato: il peso di un contratto di lavoro più oneroso (quello industriale) e il sovrappiù di management intermedio e di servizi “non essenziali” imposto dalla politica.
La soluzione di ingegneria societaria fu trovata conferendo ad una holding la proprietà del marchio, la distribuzione del prodotto e le attività a valle a più elevato valore aggiunto. Accanto a questa, una newco, una cooperativa agricola di nuova costituzione, avrebbe preso su di sé il ciclo di lavorazione, dal pollo vivo a quello morto e ai prodotti confezionati.
Si sperimentava in sostanza (Di Dario dimostrava di avere una certa genialità in questo campo) uno schema che nel corso degli anni, da allora, avrebbe preso piede largamente: scorporare le attività a bassa o nulla redditività in una “bad company” per concentrare in una società-scrigno le attività a maggiore valore aggiunto. La definizione della Solagrital (ovvero della società cooperativa a responsabilità limitata a cui sono state conferite le attività dello stabilimento di Bojano) come “bad company” potrà dispiacere. E' assai difficile però contestarne la giustezza. Ma di questo parleremo in seguito.
Quale calcolo di convenienza abbia portato il sistema politico a sposare questa soluzione e a garantire tutto l'appoggio necessario – quasi una polizza di assicurazione – alla “bad company”, su cui si sarebbero concentrati i rischi imprenditoriali, garantendo invece piena libertà imprenditoriale al “salvatore” è il tema con cui oggi è chiamata a fare i conti la politica molisana.

UNO SCHEMA CHE HA FATTO SCUOLA. SOCIALIZZARE LE PERDITE E PRIVATIZZARE I PROFITTI. CON UN RISVOLTO SINDACALE ...
Se svolgiamo rapidamente il film di questa storia da allora ai giorni nostri vediamo come la soluzione abbia retto solo per qualche anno, per precipitare non appena un fattore esterno come l'influenza aviaria ha portato a una severa selezione dei concorrenti sul mercato (quello mondiale così come quello italiano) in cui avevano un peso decisivo i differenziali di produttività. Da allora (2005) non ha più retto fino a portare la politica a doversi fare carico non solo della bad company ma anche della stesso “scrigno del tesoro”. Il temuto collasso che oggi deve essere fronteggiato non riguarda più solo Solagrital ma la stessa Arena.
Sulla storia di questa evoluzione torneremo nella prossima puntata. Guardando ai fatti così come sono stati registrati nei documenti ufficiali della società, per gli aspetti gestionali, e della Borsa, per quelli finanziari, almeno da quando Arena è una società quotata.
Prima di svolgere quel film è necessario però dedicare ancora un po' di attenzione al ruolo della politica e del sindacato nella vicenda.
Come – e in che misura – si sia protratto nel tempo lo schema consociativo è un tema che lascio per ora da parte (lo rimetto alla fantasia e alle conoscenze dirette dei lettori). Dobbiamo porci però una domanda: se il sistema politico ha nel complesso sposato quelle soluzioni, quale posizione hanno assunto i sindacati? Si sono distinti? Si sono opposti? E, se non lo hanno fatto – come in effetti è avvenuto – quale calcolo li ha mossi, quale strategia hanno seguito?
Ebbene, il sindacato ha a più riprese espresso posizioni di critica e perfino di denuncia rispetto alle scelte che stavano prendendo piede. Ma ha sostanzialmente accettato, o subito, che si dividessero, con le società, anche le sorti dei lavoratori. Per salvaguardare i livelli salariali (ED I DIRITTI) di chi era dentro fu sostanzialmente avallata una soluzione con cui si abbassavano salari e tutele dei nuovi assunti, oltre che di quelli, tra i “vecchi”, con meno potere contrattuale (perché precari o perché neo-assunti o perché “meno protetti”).
So bene che il tema della divisione tra insider e outsider è un tema abusato; che se ne è fatto argomento per sostenere tesi a mio parere insostenibili. Tuttavia non può essere risolto con un colpo di spugna. Lo schema adottato allora (un po' come quello della “bad company”, di cui è parente) ha fatto da modello per un'infinita serie di soluzioni. In primo luogo nell'area pubblica: dalle cooperative dell'assistenza infermieristica o dei servizi ospedalieri di minore complessità, a quelle dell'assistenza sociale, spesso coperte dalla foglia di fico della sussidiarietà (volontariato, terzo settore). Dall'esternalizzazione dei servizi scolastici a quella delle attività di custodia e guardiania. Un campionario sterminato di interventi con il bisturi per separare le sorti dei contrattualizzati stabili da quelle degli esclusi, dei deboli, dei nuovi. Con rapporti anche di 1 : 2 tra i redditi per le stesse mansioni.
Che sia diventata prassi comune, attenua forse le responsabilità per avere avallato quella soluzione? Penso di no, e nel dirlo sento quasi, avendo vissuto personalmente la vicenda, di dover onorare un debito, proponendo una riflessione, attraverso una ricostruzione degli errori di allora. Perché l'errore si è protratto nel tempo e proietta la sua ombra sui problemi odierni.
Una riflessione, voglio aggiungere, che serva anche a sgomberare il campo dalle molte ipocrisie che accompagnano questo argomento. E' giusto, credo, sostenere che abbassare le tutele ai più protetti non comporta che aumentino per i meno protetti, ma all'ombra di queste obiezioni finisce per essere adottata la soluzione di lasciare le cose come stanno, senza penalizzazione, per quelli che sono dentro, lasciando che qualche concessione venga fatta per chi dovrà essere assunto da domani in poi. L'alibi è l'impossibilità di trovare soluzioni che non siano a danno o degli uni o degli altri. Invece un'alternativa esiste e il caso tedesco lo dimostra. E' possibile accettare un patto in cui le tutele diminuiscono – temporaneamente – per tutti in cambio di un aumento – nel tempo - sia di occupazione che di salario che di potere (leggi, democrazia economica) per tutti e non solo per gli anziani.
E non è affatto vero che un patto di questo genere sia inesigibile, che lasci tutti i rischi sulle spalle dei lavoratori senza che l'imprenditore ne debba pagare alcuno. Un patto, per un sindacato che fa il suo mestiere, è fatto di dare e avere, di concessioni e di contropartite, che pareggino il conto. Ma fare il proprio mestiere per un sindacato significa contrattare essendo forte della consapevolezza del proprio potere contrattuale. Potere che poggia soprattutto sulla condivisione da parte dei lavoratori (della “base”) di quella stessa consapevolezza della propria forza, sul consenso che su quelle basi sono disposti a concedere e sull'affidabilità di chi è delegato a trattare. Quando queste condizioni, o anche solo una di esse, viene meno allora sì che NESSUN PATTO è esigibile. Mi lascia interdetto un sindacato che, in alcune sue componenti, dimostra di considerare qualsiasi accordo come una trappola, una bufala, e si appella alla politica o alla magistratura per sopperire a una debolezza che non ritiene di poter superare altrimenti, con le sue sole forze.

ANTICIPIAMO QUALCHE CONCLUSIONE. UNA POLITICA ARROGANTE CHE SI CONSIDERA AUTORIZZATA AD AGIRE AL DI SOPRA DI QUALUNQUE CONTROLLO. CONTRO LE LEGGI DELLA DEMOCRAZIA E QUELLE DELL'ECONOMIA
Chiedo venia per questa digressione forse troppo legata al vissuto personale. Torniamo al film Arena – Solagrital che abbiamo riavvolto al 1994, al momento in cui è stato fissato l'imprinting, lo schema iniziale su cui la nuova iniziativa si è modellata con un segno che è rimasto indelebile fino ad oggi.
Voglio però anticipare la conclusione cui ci porterà, nella prossima puntata, la storia della vicenda fino ai nostri giorni.
Oggi (per essere più precisi, dal 2008) la situazione è precipitata. Non c'è solo l'istanza di fallimento. C'è un affannoso rincorrere la situazione, si cerca di valutare, dagli estratti contributivi, quanti accompagnamenti all'esodo siano “sopportabili”, ci si rimpallano, tra i diversi soggetti coinvolti, ipotesi di conversione dei debiti in capitale, o di ristrutturazione dei debiti stessi, o di ulteriori immissioni di denaro per ricapitalizzare, in realtà al solo scopo di tacitare i fornitori senza uno straccio di speranza di poter investire per ammodernare, promuovere il prodotto, rilanciare la rete di distribuzione ecc. ecc.
La conclusione da trarre accomuna questa storia, in un gemellaggio perfetto, a quella dello Zuccherificio. La politica si è ficcata in un vicolo cieco per aver scelto una soluzione sbagliata sin dalle mosse iniziali. Per essersi sentita autorizzata ad investire il potere, che gli deriva dalle risorse pubbliche di cui può disporre, per mettere al riparo le aziende da salvare dalle incertezze e dai rischi di un'impresa economica. Una scelta proterva, priva di qualunque base di realismo e incurante delle regole elementari della democrazia.
Il potere politico può, certamente, amministrare in prima persona e gestire l'erogazione di servizi e di beni di cui vi sia pubblica necessità, che siano avvertiti come “di pubblico interesse” o “comuni” come oggi si suole dire. Le discussioni – stucchevoli – sul binomio privato / pubblico in una vicenda come questa non sono pertinenti neanche un po'. Né lo zucchero né il pollo sono beni comuni.
Il bene che è stato elevato al rango di pubblico interesse dal potere politico regionale è il consenso dei soggetti che corrono il rischio di essere investiti direttamente dalle crisi. In nome di quello sono state impegnate risorse ingenti in un'operazione di riconversione sostituendosi nel ruolo che un soggetto imprenditore sostiene A SUO RISCHIO E PERICOLO per il suo profitto senza adottare le cautele a cui quello è invece vincolato.
Precetti elementari messi sotto i piedi. Risorse pubbliche ingenti impegnate in iniziative di cui non era in condizione di valutare l'esito. Prima che per incapacità, per voluta omissione. Prima che per stupidità e ignoranza, per protervia e arroganza.
Compiuta questa scelta politica, come tale insindacabile, “sovrana”, ad ogni successivo passaggio “temerario” sono via via aumentati i prezzi da pagare: quelli economici e quelli politici, di democrazia. Passo dopo passo aumentava la dipendenza da valutazioni sempre più di parte per avallare scelte sempre meno assennate. Come il tossico che di dose in dose vede aumentare la sua dipendenza, come la vittima degli usurai che di prestito in prestito vede la “cravatta” stringerglisi attorno al collo.
Nelle battute finali, lo si è visto per lo Zuccherificio con la decisione di azzerare gli organi societari e lo si vedrà per Solagrital (e Arena) con il tentativo di rompere la dipendenza funzionale su cui era stata costruita la “bad company”, il dramma della corsa verso il precipizio è sembrato finalmente offrirsi agli occhi dei protagonisti! Ma il consenso frana, lo ha rivelato il 16 ottobre e si vedrà ancora il 17 maggio. Il mercato punisce e il tribunale fallimentare incombe. I corsi azionari crollano. I milioni e milioni di euro pompati senza criterio in queste avventure stanno togliendo alla Regione ogni margine di autonomia finanziaria e quindi politica. Infine, leggi dello stato dichiarano il sovrano ineleggibile e la magistratura giudicante sentenzia la sua interdizione da ogni pubblico ufficio. E' il tramonto, in una regione che vorrebbe risorgere per vedere l'alba di un nuovo giorno.
Ma c'è sempre qualcuno pronto a dichiarare che il prezzo dello zucchero sui mercati mondiali è in salita e i costi di produzione del pollo molisano in procinto di calare drasticamente. Pronto a giurare sul lieto fine e accusare di disfattismo chi guarda in faccia la realtà. E qualcun altro pronto a tendere una mano, a sollecitare un tavolo, ad appellarsi a qualche Commissario europeo per evitare la catastrofe che di tavolo in tavolo, Commissario dopo Commissario, è stata preparata e portata a compimento. Sono fenomeni tipici, ineliminabili, nelle battute finali della caduta di un regime.