lunedì 27 agosto 2012

L'incursione di Mauro e il pensiero debole della sinistra


L'editoriale del direttore di Repubblica, sulla matrice di destra della protesta anti-sistema, sta suscitando un aspro dibattito, che sfugge però ai temi di fondo che quell'articolo solleva, ai concetti “forti” con cui si rivolge a una sinistra “culturalmente debole e con scarso spirito di battaglia”. Propongo invece al lettore di cogliere l'occasione per prendere di petto quei temi tentando un esercizio di chiarezza, al di là delle forzature e delle semplificazioni.

  
L'onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra... Diversa dal berlusconismo ma sempre destra: zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione, delega alle Procure non per la giustizia ma per la redenzione della politica, considerata tutta da buttare, come una cosa sporca ... facendo di ogni erba un fascio in modo da legittimare il lanciafiamme che redima il sistema… Altro che guerra civile a sinistra. Siamo davanti a una nuova destra che insidia il campo "democratico" per la debolezza culturale e lo scarso spirito di battaglia della sinistra italiana … Finché questo equivoco finirà, e dopo la definitiva uscita di scena di Berlusconi la destra starà finalmente con la destra e la sinistra con la sinistra.”


In questi, che ho qui ripreso, ed in altri passaggi dell'editoriale sulla Repubblica del 24 agosto 2012 Ezio Mauro chiama e interroga la sinistra su concetti “forti”. Da cui si deve ammettere che, da qualche tempo, è prevalso l'uso di tenersi a debita distanza (la “debolezza culturale e lo scarso spirito di battaglia” credo alluda anche a questo).
A partire dalla definizione di sinistra, che Mauro azzarda quasi senza dare a vedere, ragionando “a contrario”, indicando ciò che manca alla destra (sensibilità sociale ai temi del lavoro, della disuguaglianza, e dell'emancipazione). Ciò che però dà un senso “forte” al lungo ragionamento è soprattutto l'auspicio conclusivo, che la destra torni a stare con la destra e la sinistra con la sinistra. Senza più quella destra - anti-politica prima che anti-berlusconiana - tracimata nel campo della sinistra. Ma anche senza, sembra di capire, il massimalismo che del riformismo è sempre stato nemico.
In mezzo, di passata, un presa di posizione sull'ontologia professionale di chi ha scelto il suo mestiere. Non deve proporre narrazioni ma dare strumenti per comprendere.

I commenti hanno sorvolato su questi temi “forti”. In genere l'attenzione è rimasta attratta dal dito, la querelle sul ricorso di Napolitano alla Consulta e, al più, salendo appena un po' di livello, il tema–tormentone dei rapporti tra potere politico (esecutivo, ma non solo) e giudiziario. Senza arrivare alla luna. Ed è anche da notare una certa reticenza, se non un silenzio assordante, sul fronte sinistro, che appare in imbarazzo (a parte quelli direttamente chiamati in causa dall'anatema).
Invece, pur non risultando agevole interloquire con un pensiero espresso così in sintesi e con molte ardite semplificazioni, l'occasione non andrebbe buttata via da una sinistra che ha in effetti bisogno di tornare a misurarsi con i grandi temi. Per parte mia tenterei perciò di proporre al lettore un esercizio in questo senso, ispirato soprattutto da un'esigenza di chiarezza, per andare oltre le forzature contenute nell'editoriale di Mauro senza perdere l'occasione per aggredire i nodi di cui tratta.

C'è, nel campo che si oppone alla destra “anomala”, berlusconiana, insieme alla sinistra che lo occupa naturaliter, anche un'area che appartiene, come matrice culturale, alla destra?
Questa tesi, alla base del ragionamento, mi sembra difficilmente confutabile. Se non altro perché nell'area cui si allude si ritrovano personaggi che della loro matrice non hanno mai fatto mistero (ed è per questo che Padellaro dimostra tanta comprensibile ira ma poco acume nel chiedere a Mauro “chi lo autorizza?”). Non mi riferisco solo a Travaglio ma allo stesso Di Pietro (democristiano di destra convinto e mai pentito), a Grillo (“né di destra né di sinistra”, locuzione appartenente al bagaglio tradizionale di un preciso filone della cultura di destra). E che dire del personaggio che meglio riassume quest'area, Scalfaro, i cui ultimi anni di vita sono stati segnati da una contrapposizione senza tentennamenti alla destra berlusconiana (che ne ha fatto un bersaglio-simbolo), dopo che per lungo tempo si era distinto per un conservatorismo collocabile nel lato destro della galassia democristiana?


C'è però un'omissione, tra le tante, nello scritto di Mauro che rende debole la conclusione che viene tratta da questo dato di fatto inconfutabile. Non viene spiegato se alla radice dell'invasione del campo, al di là della convergenza contro il nemico comune, non vi fossero più solide convergenze politico-culturali.
Senza farla troppo complicata, direi che non si è trattato né di una coincidenza né di un travisamento e che possiamo spiegare le ragioni profonde delle convergenze in base a uno schema semplice, classico. L'esercizio delle libertà politiche, poste appena un gradino più in alto di quelle civili, personali, poggia sui capisaldi dello stato di diritto, del consenso informato e del bilanciamento dei poteri. Quando essi sono messi a repentaglio, è negato all'origine l'accesso alla cittadinanza sociale, che è il tema chiave che distingue la sinistra. Ma ne risulta compromessa anche la libertà economica fondamentale per un imprenditore: misurarsi alla pari in un mercato aperto.
Sulla difesa dello stato di diritto e delle altre pre-condizioni della democrazia convergono dunque sia le dottrine politiche che individuano nel mercato il regolatore assoluto (da sottrarre perciò ai condizionamenti della politica), che si possono definire senza alcun dubbio come di destra, sia quelle, di sinistra, che sostengono la necessità di “azioni positive” che modifichino la dinamica spontanea del mercato per assolvere ai fini sociali che non è in grado di assolvere, in quanto ad esso estrinseci.
Se alcuni protagonisti della battaglia per l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (stato di diritto) sono stati reclutati dalla sinistra, o si sono convinti ad impegnarsi al suo fianco, pur dicendosi di destra, non c'è dunque alcuno scandalo, né c'è da pentirsene.
Basterà l'uscita di scena di Berlusconi per porre fine a questa convergenza? La conclusione appare davvero sbrigativa, se è vero che la scarsa considerazione per i principi alla base dello stato di diritto non è stata inoculata da Berlusconi nel corpo elettorale quanto piuttosto “sdoganata” (e solleticata, questo sì), non solo come base di consenso, in un elettorato in cui era assai diffusa, seppur allo stato latente, ma anche come stella polare per l'agire politico.
Dunque le ragioni di una convergenza possono andare oltre la fase contingente. Ma a quali condizioni? E chi deve “dare le carte”, cioè fissarle, come irrinunciabili?
Qui viene la parte più ricca di spunti, a mio parere, dell'editoriale, accompagnata tuttavia da qualche altra importante omissione.
Il tema da non lasciar cadere è quello dell'argine da opporre alla cultura della protesta contro la politica. Perché la sinistra nasce dalla piena affermazione della politica come luogo di risoluzione dei conflitti. Perché il primato della politica non è un'aberrazione tipica dell'armamentario comunista ma un segno distintivo della cultura di sinistra tout court. A quei liberisti che obiettano che per lo stesso marxismo classico è solo sovrastruttura, sottomessa alle regole che presiedono al funzionamento della struttura economico-produttiva che innerva il tessuto sociale, va ricordato che la sinistra moderna nasce proprio dal superamento di questo schema e dall'affermazione del primato della politica, nel momento in cui si prefigge di agire su quella dinamica per indirizzarla al raggiungimento di fini sociali ad essa estrinseci. La sinistra senza il primato della politica scompare e perde di senso.
Qui però si pone un'altra domanda chiave che Mauro elude. Quell'area che si dice “né di destra né di sinistra”, che vagheggia un autogoverno dal basso, di cittadini liberati della mediazione della politica, espressione del “volta per volta”, dell'interesse immediato della maggioranza, merita davvero di essere definita di destra? Perché?
La risposta è al centro dell'attenzione del dibattito politico attuale e chiama in causa la definizione di populismo. Se esiste un populismo di sinistra, in che misura è assimilabile a quello di destra? Non è l'evoluzione stessa della tecnologia che rende possibile una sempre maggiore informazione e quindi capacità di visione strategica dei cittadini? E un interscambio tale da consentire di registrare un pensiero (maggioritario) consapevole e “di vista lunga”, per ciò stesso refrattario alla manipolazione autoritaria?
La sfida, su cui Mauro sorvola pur ospitando nelle pagine interne del quotidiano contributi di grande interesse su questi temi, è questa. E quanto più l'informazione si sintonizza sulla deontologia che proprio Mauro caldeggia tanto più la sfida può rivelarsi alla portata e negare quindi il presupposto di partenza. Il movimentismo, l'assemblearismo, l'antiistituzionalismo, non sarebbero dunque più solo mascherature del populismo, cultura di destra perché fondata sull'autoritarismo, fino al dispotismo, perseguito da chi si appella al popolo senza mediazioni.
Non pretendo di dare una risposta ai dubbi, ma avanzo l'ipotesi che siano legittimi, in favore dei rei, o sospetti tali. Che forse siano perfino fecondi. E che tuttavia la condizione per lasciar spazio al dubbio in loro favore stia nella capacità dei movimenti dal basso di discernere e dunque di interagire con la politica democratica. Quella, per intenderci, che non sia soltanto “di sinistra” nel senso tradizionale (sarebbe un corto circuito logico piuttosto banale) quanto “aperta”. Nel senso della “trasparenza”, quella che preparò la fine della parabola sovietica. Del controllo dal basso, dell'espansione degli spazi di democrazia diretta e, sarei per dire, della concertazione (tema che apre però il complesso capitolo del ruolo, non sempre coerente con i principi di apertura e trasparenza, dei “corpi intermedi”).

Non è un'omissione da poco. E' anzi tale da poter cambiare il segno di tutto il discorso. Ma ce n'è un'altra che non si può tacere.
Se vale questo ammonimento sul fronte del populismo e del radicalismo di sinistra, quali argini devono essere posti nel confronto-dialogo che si instaura con la destra liberale fautrice del mercato?


Non sono certo meno importanti i “paletti” e le condizioni da porre su quel versante. E qui, per concludere, c'è un asino pronto a cascare. Se è vero che dietro le posizioni “né né” si può nascondere il populismo autoritario (di destra) è non meno reale il pericolo che posizioni lontane, e inconciliabili con la sinistra, si possano nascondere dietro l'etichetta del centrismo, che al “né né” si ispira tanto quanto i bersagli contro cui si rivolge Mauro. 
La destra con la destra? Non sono per regalare la destra “pulita” a quella populista e demagogica, ma le basi di un accordo non possono che essere quanto mai chiare. Altrimenti, anche rispetto al centro, la sinistra deve saper stare con la sinistra senza perdere la sua fisionomia, la sua anima, la sua ragion d'essere.