venerdì 28 settembre 2012

Euro si, Euro no


Il tabù è stato infranto. Da qualche tempo si può parlare liberamente di uscita dall'Euro. E' il caso di parlarne, dunque.

Il sogno irrealizzabile della Lega. Agganciarsi a un Euro-nord sganciato da un Euro-sud

Ne parla la Lega.
Solleva un problema non da poco. Se si dovesse andare allo “split”, ovvero alla scissione tra Euro-nord (forte) e Euro-sud, esploderebbe immancabilmente il tema degli squilibri regionali interni ai paesi deboli. Il più vistoso (non l'unico) essendo quello italiano, i leghisti si fanno forti del fatto che gli indicatori riguardanti le regioni del centro-nord sono molto più vicini a quelli degli Stati forti (e virtuosi) che non a quelli medi dei PIIGS.
Si può obiettare che le inefficienze di sistema del Paese Italia (per dire: ritardi della giustizia, arretratezza della P.A., autoreferenzialità del sistema bancario, evasione fiscale, corruzione) non sono facilmente localizzabili in un'area geografica piuttosto che in un'altra. Le differenze ci sono semmai all'interno delle macro-aree e, soprattutto, tagliano trasversalmente il corpo sociale.
Ma è anche la sequenza logica che non regge. Nel momento in cui l'Italia (Paese) uscisse dall'Euro diverrebbe impraticabile qualsiasi operazione di aggancio all'Euro-forte per una sua parte. Classica zappa sui piedi. A maggior ragione se la questione diventasse (come si sente dire in qualche raduno celtico) quella dell'uscita dall'UE prima ancora che dall'Euro.

Roberto Maroni vuole un referendum contro l'euro 

L'ambiguo ricorso al referendum dei “5 stelle”. La parola ai cittadini: davvero?
Ne parla il Movimento 5 Stelle.
Per rivendicare un referendum che dia ai cittadini la possibilità di decidere sull'Euro. Con quale opzione? Nessuna, sembrerebbe, stando alle dichiarazioni “autentiche”, dei guru del Movimento.
Ritengo siano apprezzabili le novità che il Movimento sta sperimentando quanto alle nuove forme di partecipazione, con un uso massiccio e intelligente delle tecnologie della comunicazione e dei social network. Per loro il veicolo è il contenuto, verrebbe da dire. Ma, un momento! Davvero il Movimento non ha opzioni di contenuto? Non dice la sua su ambiente, economia, etica pubblica (tanto per elencare qualche tema che mostrano di affrontare con più passione)? Se a Parma il M5S che regge il governo della città dovesse risolversi a chiamare i cittadini a un referendum sull'inceneritore, lo farebbe senza indicazione di voto, senza impegnarsi per orientare la scelta in una direzione piuttosto che in un'altra? Suvvia, non scherziamo!
Il tema dell'Euro è dunque meno importante? O meno chiaro? O non sarà che si preferisce nascondere la mano che lancia il sasso?
Non ci vuol molto a immaginare che raccogliere le firme necessarie sarebbe un gioco da ragazzi. Dunque, se è vero che l'indizione del referendum sarebbe in sé un successo, come ha apertamente dichiarato Beppe Grillo, il successo è assicurato. Ma lo stratega del Movimento sa bene, come sanno anche i bambini, che sarebbe al tempo stesso un colpo severo alla stabilità dell'Euro.
Lo fa per la democrazia, a quanto pare. Perché avrebbe dunque il coraggio di affermare che è stato imposto ai cittadini italiani? Che non hanno avuto modo di esprimersi? Dimentica che uno dei motivi principali del successo elettorale di Prodi nel '96 fu proprio il programma di aggancio all'Euro? Dovrebbe ricordare che il massimo della popolarità di quel governo si ebbe nel '97-'98 (poco prima della sua caduta, dunque), proprio in coincidenza con i sacrifici lacrime e sangue imposti al paese per riuscire ad agganciare l'Euro. Quell'Euro da cui – dovrebbe ricordare anche questo – la grande finanza domiciliata in Germania e Olanda voleva tenere lontano il nostro Paese. Così come qualche anno dopo ha gridato allo scandalo per l'aggancio compiuto dalla Grecia, che ora vuole sbattere fuori.
Non sto insinuando che il gioco di Grillo & co. è a indebolire l'Euro sia un “lavoro per conto terzi”, ma sarebbe il minimo aspettarsi un esplicitazione dei motivi di questa scelta. Sarebbe di un atto di onestà politica elementare. Anche per capire dove cominciano e dove finiscono i pregi della “nuova” politica che intende impersonare. In mancanza, per affrontare il tema dell'uscita dall'Euro dobbiamo riferirci agli argomenti portati avanti da chi ne fa un obiettivo esplicito.

 

Ne parla Berlusconi. Ispirato da solidi argomenti? Piuttosto, dalle rilevazioni di Eurobarometro

Stavo per dimenticarmene. Ne parla anche Berlusconi. O, meglio, ne straparla.
Pensando alla cultura politica che lo muove è facile che dietro, più che una qualunque argomentazione, ci siano piuttosto le indagini Eurobarometro. Che mostrano, questo sì, una progressiva disaffezione (a partire, non sarà però un caso, proprio dall'avvento di Berlusconi al governo) nei confronti dell'Euro oltre che dell'Europa. Non tale, tuttavia da far preferire l'uscita, anche se sono il sintomo di un possibile bottino di voti. Che il fenomeno debba preoccupare chi resta convinto che la prospettiva europea non abbia alternative, se non catastrofiche non è affare che possa riguardare il Cavaliere.
Sta di fatto che in termini assoluti non sono una quota rilevante, stando ai sondaggi. E che, senza ombra di dubbio, si tratta di una quota molto meno numerosa di quella che, nell'area dei Paesi “forti”, vorrebbe la separazione “per non accollarsi il peso dei debiti dei paesi spendaccioni”. Ma quale attrattiva può esercitare la prospettiva dell'uscita in un “paese spendaccione” come il nostro?


Le ragioni della destra anti-euro: stampare moneta a volontà. In nome della sovranità nazionale.
Dobbiamo qui distinguere il sentimento “anti-euro” di sinistra da quello di destra.
La variante di destra è questa: con l’ingresso nell’euro non si può sostenere la domanda nazionale stampando moneta. Lo fa la FED americana, lo fanno gli inglesi e le altre monete europee extra-Euro mentre a noi non è concesso. Si noti che in questa versione la svalutazione, conseguenza inevitabile della creazione di moneta, non è tenuta in nessun conto.
D'altra parte, la caduta della domanda interna, nell’impossibilità di una politica di deficit spending, porta alla recessione. Dunque dall'ingresso nell'euro deriva perdita di competitività (non si investe) e impoverimento delle famiglie.
Il salto logico, oltre che nell'ignorare la svalutazione, è nascosto nella premessa, secondo cui la devoluzione del potere di battere moneta a Francoforte ha come conseguenza obbligata (priva di alternative) l’impossibilità di una politica di sostegno alla domanda per via di investimenti pubblici (anche in deficit). Ma non è così ed è di questo che occorre invece parlare.

Soffia un venticello anti-euro anche a sinistra. Stormir di fronde.
Intorno all’uscita dall'euro circolano anche a sinistra, sussurrati, alcuni ragionamenti. Diversi, ma basati su una premessa non troppo distante: con l’ingresso nell’euro non è più consentito recuperare competitività svalutando la moneta.
L'attenzione sembra spostarsi più sulla convenienza che una svalutazione della moneta può presentare sul piano delle ragioni di scambio nell'export anziché sugli effetti di sostegno alla domanda interna. Ma la differenza più rilevante sta nella preoccupazione, che anima la “fronda” di sinistra, che la sola alternativa per recuperare competitività consista nello svalutare i salari: alternativa sbagliata e inaccettabile, che porta alla macelleria sociale e non garantisce altro che un recupero di competitività momentaneo e illusorio.
Resta dunque in fatto: che l'idea che l’ingresso nell’euro abbia portato macelleria sociale e perdita di competitività accomuna gli scontenti di destra e di sinistra. Ma è un'idea fondata?
Ma è davvero inevitabile una svalutazione dei salari se non si può svalutare la moneta?
Dov'è il salto logico? Il ragionamento poggia sul presupposto che la svalutazione della moneta non abbia che un’unica alternativa, ovvero la svalutazione dei salari, che preoccupa giustamente la sinistra (oltre alla caduta della domanda interna per una stretta fiscale, che spaventa la destra, su cui però non vado oltre).
Ora, se esistono invece alternative, che non passano per la svalutazione dei salari e consentono di sostenere la domanda (di consumo e di investimenti), allora i costi che i lavoratori stanno sopportando non derivano dall’euro ma dal fatto che non si perseguono le alternative corrette e si cerca soltanto il recupero di competitività tagliando sul costo del lavoro, sul salario.
Attenzione al pericolo che si nasconde dietro l'illogicità. Si fa credere che la scelta da fare consista nel soppesare pro e contro dell’uscita dall’euro dando per scontato che l’euro comporti quei costi (perdita di competitività e macelleria sociale). Tutto si risolve allora in una contabilità di svantaggi e benefici da porre a confronto con quelli che si avrebbero con l’uscita. Quando, viceversa, l’euro non comporta quei costi come inevitabili. Anzi. Occorre domandarsi se svalutando la moneta (una moneta nazionale debole) non si svalutino ancor più i salari. E se stampando moneta (nazionale, debole) non si sottraggano ancor più risorse alla destinazione auspicabile, di sostegno alla domanda. La risposta dovrebbe essere evidente.

Ovvero, ci viene imposto di farlo, senza che si possa seguire un'altra via?
Ma, si sente argomentare (a bassa voce) a sinistra, se chi comanda in Europa non ci permette di seguire strade alternative a quella della compressione dei salari, siamo costretti, per NON uscire dall'Europa, a uscire dall'Euro. E' l'unico modo per adottare una soluzione keynesiana avendo riacquistato sovranità monetaria. Mi scuso per la sintesi un po' rozza ma spero in compenso sia chiaro il tema. Ora, è da dimostrare che, anche nell'assetto politico dell'Europa attuale, non siano praticabili, per impedimento politico esterno, politiche di sostegno della domanda aggregata, pur con un fiscal compact che è tutto il contrario del deficit spending di classica memoria.
Non è dimostrato che sia così. Il punto è però, a mio avviso, ancora un altro. Perché la spesa pubblica in deficit non si traduca in pura inflazione, che colpisce comunque i redditi da lavoro senza aiutare l'economia a riprendersi, sono necessarie due condizioni.
La prima, banalmente, è che quella spesa alimenti (direttamente o tramite aumento dei consumi finali) investimenti capaci di generare aumenti di produttività. Di sistema, non certo soltanto in termini di valore aggiunto per ora lavorata, ciò che rinvia, insieme al tema dell'ammodernamento del sistema produttivo, a quello delle riforme, come si diceva un tempo, strutturali: giustizia, credito, fisco, pubblica amministrazione, diritto societario, servizi e public utilities, ecc. ecc.. Insomma, tutto il lungo elenco di fattori su cui le classifiche internazionali condannano il nostro paese alle retrovie.
La seconda, forse meno scontata anche se dovrebbe esserlo, è che i frutti della crescita, una volta tornati nella fase ascendente del ciclo, vadano a ripagare il debito.
Il nostro Paese è mancato a entrambi gli obblighi.
Non possiamo nascondercelo, anche se dovrebbe essere del tutto chiaro che non sarà mai un motivo sufficiente per essere oggi condannati alla recessione e a far pagare il peso della crisi a chi ne ha meno colpe.
Per il nostro Paese è ora di uscire. Non dall'Euro, ma dalla storia degli ultimi trenta anni. Finalmente
Il fatto è che, Europa o non Europa, Euro o non Euro, Euronord o Eurosud, dobbiamo imboccare un'altra strada rispetto a quella che i rappresentanti politici che il nostro popolo ha eletto hanno percorso in tutti questi anni. E non parlo solo degli ultimi anni perché è la storia che si trascina dalla fine degli anni Settanta, quando è stata data una soluzione autoritaria e classista (contro il lavoro) alla crisi sociale che si era aperta durante il decennio precedente. Il processo non è stato lineare, ci sono state fasi in cui una linea “pro-labour” (come si dice nel resto del mondo) ha fatto capolino e ha portato anche qualche risultato. Sono stati anche i soli anni in cui l'economia è cresciuta e il debito è calato. Ma il trend di lungo periodo è stato quello.
Se ancora una volta, intendo dire in conclusione, la sinistra italiana si lasciasse abbagliare dalle ipotesi fantasiose prodotte dall'estremismo corporativo di una destra classista, perdendo di vista i fondamentali della questione, e si facesse irretire da uno sciagurato incantesimo, quello delle sirene anti-euro, perderebbe ancora una volta un appuntamento con la storia che il 1989 sembrava averci regalato per invertire quella tendenza e che è stato invece buttato alle ortiche.
Uscire dall'euro per non essere capaci di uscire dalla storia degli ultimi trent'anni sarebbe il tragico coronamento di una fase regressiva. Da cui invece la sinistra (non la destra moderata, che di quella fase è stata levatrice, né Monti che ne è pur sempre espressione) ha il compito storico di liberare finalmente il Paese.