mercoledì 11 luglio 2012

Ma di che parliamo?


Breve storia del Molise dal 17/10/11 ai giorni nostri.
Tanti modi per non accorgersi di quello che è successo.
La “coazione a ripetere” del politicante miracolato.
E le (poche) eccezioni.
L’informazione “non ci coglie”. Ma è il momento giusto per emanciparsi.


Il 16 e 17 ottobre dell’anno scorso il Molise ha vissuto una piccola rivoluzione politica.
Piccola come è piccola la Regione. Ma importante perché si collocava nel solco delle novità della precedente primavera (amministrative e referendum) e anticipava quelle cui avremmo assistito dopo qualche mese.

Non è una notizia, direte. Non dopo tanto tempo.
Vero. La notizia è un’altra. Che in Molise, dopo tutto questo tempo, non se n’è ancora accorto quasi nessuno dei (cosiddetti) politici che vi operano.

Dobbiamo dunque cominciare col capirci sulla novità: di che si è trattato?
Un candidato di centro-sinistra “non allineato” vince le primarie su parole d’ordine (che dovrebbero essere) tipiche della sinistra, essendo però contestato da una parte della sinistra per la sua storia politica (“non limpidamente di sinistra” dice una personalità autorevole come la Bindi, che però non lo conosce neanche un po’). Sta qui la novità? Non direi, film visto fin troppo.
Contrariamente alle previsioni, arriva ad un passo dalla vittoria. Secondo gli scrutatori (anche del centro destra) fa perfino quel passo ma i verbali gli danno torto. Neanche questa è una novità: succede che i sondaggi non captino i mutamenti quando avvengono negli umori profondi.

Di Laura Frattura fa il pieno del voto disgiunto (da destra). Il primo segnale di novità mi sembra dunque questo: che vince (o si avvicina alla vittoria, se preferite) su un voto NON di appartenenza ma di “svincolo”.
Non è l’unico segnale di novità. Con lui raccolgono un successo imprevisto (ma non insperato) i “5 stelle”. Anche loro raccolgono tanto voto disgiunto, in particolare tra gli elettori di centro-sinistra scontenti del loro candidato, poco convinti di una sua vittoria o poco interessati a una sconfitta del governatore uscente. Anche in questo caso, dunque, voti che si liberano dal vincolo di appartenenza, da destra e da sinistra.

I due fenomeni presentano forti somiglianze. Il candidato di centro-sinistra convince una larga parte dell’elettorato di essere seriamente intenzionato a suonare un’altra musica, attento alla sostanza dei problemi, impegnato a tirar fuori la Regione dalle sabbie mobili di una crisi radicale, ben peggiore di quella che fa soffrire il Paese nel suo insieme. Promette così di riscattarla dal servaggio imposto da una politica basata sul ricatto clientelare.
I “5 stelle” aprono una breccia dimostrando anche loro di avere idee e proposte concrete in testa e convincendo gli elettori di essere disposti ad andare fino in fondo per attuarle, promettendo di muoversi a stretto contatto con coloro che, votando, li hanno delegati a rappresentarli in sede politica.
Ma i due indizi non vengono letti come una prova di quello che sta cambiando. Anzi. Le litanie delle prefiche che piangono la sventura della sconfitta annunciata si sommano ai canti dei salmodianti che salutano lo scampato pericolo. Tutti a guardare indietro e a nascondersi il futuro.

Invece è finita un’era.
Pende un ricorso elettorale, che in primo grado ha portato all’annullamento delle elezioni. Comunque vada il giudizio definitivo, l’era politica dello iorismo, versione locale ed appendice del berlusconismo, è morta e sepolta. Comincia un’altra era politica.
Poiché non concepisco la politica come un gioco d’azzardo non mi sento di sentenziare che sarà migliore. Sono però titanicamente certo che, se non si fosse voltata pagina, una stagione migliore non sarebbe stata nemmeno pensabile. Ora si può. Non solo pensarla.

Ma in pochi se ne sono accorti. Perché in Molise la Politica (quella “als Beruf” di cui parla Max Weber, che tradotto significa “come professione”) non è in auge. Politicanti, spesso miracolati, baciati dalla fortuna, quelli sì, tanti …

Berlusconi invece se n’è accorto. Non gli è bastato far finta di non ricordare di essere un deputato eletto in un collegio del Molise. Né ha funzionato il sommo sacrificio a cui si è sottoposto rinunciando a tornare, per vantare miracoli, “là dove tutto è cominciato” (secondo la felice espressione di Antonello Caporale), a San Giuliano di Puglia. Là dove è stato messo a punto, collaudato e lanciato in orbita il primo colossale meccanismo di spolpamento delle finanze pubbliche a beneficio di una ristretta cricca di affaristi di corte, lasciando amministrare le briciole (per comprare consenso) al valvassore locale. Sulla pelle dei bimbi e delle maestre sepolte dal terremoto e di quelli che avevano subito davvero la disgrazia di veder rovinare la propria casa.
C’era stata perfino la gara a non ricordare. Un miliardo e duecento milioni di euro buttati nel pozzo della macchina affaristica di Bertolaso & Co.? Dimenticati. Anzi, tutti pronti a rivendicare il restante, quello che manca per la ricostruzione, quella vera, a dieci anni di distanza. Berlusconi è apparso, in qualche momento, la controparte di Iorio, che ne era invece la controfigura.
Ma sarebbe stato ben pronto, Berlusconi, a mettersi in tasca la vittoria sonante di Iorio, che tutti prevedevano, ed a farne motivo per uno squillo di tromba e per una risposta sprezzante all’Europa: “non me ne vado, il popolo è con me” sperava di poter dire, sulle rovine del Molise. Invece, vittoria risicata o sconfitta, poco cambiava, il popolo lo stava abbandonando insieme con il suo mandatario. E Berlusconi ne ha avuto chiara cognizione.

Così come se ne è accorto il Viceré. Si può essere critici feroci di Michele Iorio, e non faccio mistero di esserlo, ma non si può certo disconoscere la sua stoffa politica. Non si resta al vertice per diciotto anni (meno manciate di mesi qua e là) senza essere professionisti della politica di notevole levatura. Ne ha data prova ulteriore con la rappresentazione finale messa in scena qualche giorno fa alla Piana dei Mulini.
A molti è apparsa alquanto patetica, ma ha usato il linguaggio e i modi della politica che oggi i cittadini domandano: “vi ascolterò … vi starò vicino… decideremo insieme”. Ha dimostrato quindi di averli compresi.
Sprezzo del ridicolo? Certo. Far finta di poter ricominciare da domani (“è un altro giorno, si vedrà” avrebbe detto Rossella O’Hara) su uno spartito tutto nuovo, è sembrato a molti un vero e proprio oltraggio. E lo è stato in effetti. Ma forse non si è ben capito a chi era rivolto. Se quattro comprimari (che si erano nutriti fino al giorno prima delle uova d’oro che il gallo del pollaio distribuiva generosamente) potevano permettersi il lusso di recitare la parte di “quelli che non c’erano”, Iorio ha dimostrato di poterli stracciare anche in quella parte. Con molta più impudenza di loro. Perché un primattore è un primattore anche quando la commedia non fa più un soldo al botteghino, mentre delle comparse, dal giorno dopo, non si ricorda più nessuno.
E per completare l’opera sono bastate poche ore. Si è chiamato tre baldi accompagnatori (i tre pretendenti regicidi, Vitagliano, Fusco Perrella e Scasserra) e se li è portati, senza manco bisogno di prenderli per le orecchie, a firmare un accordo con i sindacati nazionali che smentiva in un sol colpo le due aperture di credito concesse dall’opposizione sullo Zuccherificio. Un accordo che condannava al licenziamento (mobilità da esodati) un terzo dei dipendenti (primo dito nell’occhio) senza che si vedesse neppure l’ombra di un piano industriale (secondo dito nell’occhio) che potesse far presagire una qualche strategia per salvare lo Zuccherificio dal fallimento. Tanto per dire che nulla era cambiato, che lui era lui e gli altri non erano niente.
E’ la storiella dello scorpione: trascina con se la ranocchia del centro-destra ad affogare nei gorghi ma non viene meno alla sua natura e alla sua storia. E fra qualche settimana si presenterà a chiedere ancora qualche decina di milioni al Consiglio per lo Zuccherificio. E’ sempre lui, insomma, il Governatore Iorio. Non ha cambiato e non potrà mai cambiare politica. Ma dimostra di aver capito quello che sta succedendo.

Gli altri brontolano, filosofeggiano, tramano, viaggiano a Roma. Non hanno capito niente.

E a sinistra? Non credo di essere annebbiato da partigianeria se dico che il quadro è migliore. Anche se quelli che non hanno capito, pur poco numerosi, sono però abbastanza rumorosi.

Tra quelli che hanno capito per primi, qualunque osservatore obiettivo deve ammetterlo, c’è Roberto Ruta. Devo dargli atto di aver dimostrato stoffa politica e lungimiranza, benché raramente in precedenza mi sia capitato di condividere le sue mosse (se può interessare a qualcuno). Sin dal ’97-’98, quando si è prestato al ribaltone pro-Iorio, lusingato, appena trentenne, dall’offerta della Presidenza del Consiglio (ma le colpe maggiori ricadono sugli strateghi, che non erano altrettanto giovani).
Stavolta ha fiutato l’aria nuova che si cominciava a respirare, già nel 2010, nelle associazioni di rappresentanza, attorno alla Camera di Commercio. Si è proposto per un’attenzione ai contenuti (il Forum di Alternativa, mossa “furba” quanto si vuole ma anticipatrice). Poi ha dato vita a una lista parallela alle provinciali di CB e alle Regionali, tra anatemi e scomuniche, per vederla adesso assunta come linea nazionale dal PD. Infine, rientrato nei ranghi del partito in servizio effettivo, ha portato per mano il segretario, da sempre sua sponda convinta e affidabile, a operare un rinnovamento degli organigrammi su cui non avrebbe scommesso nessuno (al più una mano di “romanella” alle pareti, pensavano tutti). Modello Renzi, tutto proteso a “acchiappare” a destra? Nessuno si scandalizzi se dico che ha dimostrato di essere più avanti, meno rozzo e più equilibrato del più noto sindaco di Firenze, al di là dei giudizi che si possono dare sui suoi “acquisti” singolarmente presi.
Dato a Ruta quel che, credo, si meriti, va comunque detto che in prima linea in Consiglio Regionale, fortunatamente, c’è un solido manipolo di consiglieri che hanno costruito progressivamente una squadra intorno a Di Laura Frattura, che sta crescendo di giorno in giorno. Appartengono a PD, IdV e Federazione della Sinistra, a dimostrare quanto stucchevoli possano essere le diatribe sulle geometrie su cui si dovrebbero costruire le fortune del centro-sinistra prossimo venturo a livello nazionale. Anche qui, prima delle appartenenze conta il merito delle questioni, l’orientamento al risultato, per preparare adeguatamente una stagione di governo che, se mai dovesse cominciare, farà tremare le vene ai polsi.
Senza il PSI, o senza SEL, allora? Neanche per idea, i partiti sono attraversati da linee di faglia in movimento, è presto per tracciare confini definitivi, si deve lasciare tempo anche a chi oggi si ostina a non capire (o a far finta).

C’è dunque chi ha capito, soprattutto a sinistra. Ma chi conosce lo stato dell’informazione in Molise e la cappa di piombo che grava su chi ha intrapreso questa nobilissima professione, non sarà certo sorpreso nel constatare che al parlar d’altro dei politici di destra corrisponda il più totale disorientamento (non parlo di disinformazione perché voglio escludere il dolo) degli organi di informazione.
Di che si parla? Sembra continuamente di stare su “Scherzi a parte”.
Le elezioni sono state annullate (in primo grado) perché sono state accertate (sin da prima delle elezioni, ma questo fanno finta tutti di non averlo letto o di non averlo capito) gravi irregolarità. Dunque è molto probabile (quanto meno) che si torni a votare. Nel frattempo la Regione è paralizzata da una Giunta che dovrebbe fare (almeno) l’ordinaria amministrazione ma che, non essendo riuscita a fare degnamente neanche quella negli ultimi dieci anni, sta accumulando ulteriori disastri su disastri in tutti i campi.

Niente di tutto questo. “La vicenda dei ricorsi si tinge di giallo”. “13 luglio data fatidica”. Perché si decide la data della sentenza di merito, e di conseguenza la data delle nuove elezioni? Questo, sì, avrebbe qualche importanza ma viene trascurato. Data fatidica perché si decide sulla sospensiva. E sapete perché è importante? Perché, se viene concessa, la Giunta Iorio può di nuovo proporre leggi, e il Consiglio discuterle e approvarle: come se quello fosse il problema!!!

Un altro esempio eclatante. Gli assessori competenti, tutti insieme appassionatamente, accompagnano Iorio, ho già avuto modo di accennarlo, a firmare atti (la costituzione di una Newco, un accordo sindacale che licenzia un terzo dei dipendenti) che vengono presentati al pubblico come premessa per scongiurare il fallimento. In realtà, renderanno più improbabile l’autorizzazione al concordato preventivo da parte del giudice (ne ho parlato nel post precedente) e sono solo la premessa per costringere il Consiglio ad approvare la sottoscrizione di una nuova immissione di liquidità (per svariati milioni di euro) nelle casse dello Zuccherificio, per tacitare i creditori. Non troverete nulla di tutto questo sulla stampa. Piuttosto, ampie elucubrazioni sul posizionamento dei tre assessori rispetto a Iorio nel prossimo futuro; sulla sigla che sarà scelta da Iorio per presentarsi alle elezioni (se mai si dovesse votare, ma sulla stampa si susseguono scongiuri su scongiuri); sulle divisioni del centro-sinistra; sul conflitto di interessi di Frattura (perché in passato si è interessato di energie “green” e perfino di biomasse, uno scoop degno del Pulitzer!).
A questo riguardo, faccio fatica ad ammetterlo, il quadro non appare roseo nemmeno nell’informazione indipendente (o che tale si sforza di essere). Tranne pochissime eccezioni (individui, più che testate) si segue l’andazzo. Perché nell’informazione funziona così, la maggioranza orienta i gusti del pubblico e condiziona anche la minoranza? Vorrei proporre una ipotesi alternativa, e una parola di speranza. Il pubblico è sempre meno orientabile sulla lunghezza d’onda dettata dalla maggioranza. Mediaset è crollata in Borsa. Prima che cadesse Berlusconi, non confondiamo causa ed effetto! Quel crollo segnalava il distacco crescente dal “modello Biscione” e preannunciava la caduta degli dei.
Non si tratta di adottare un altro “modello guida”, un carro alternativo su cui saltare o un altro mentore cui offrirsi come agnelli al sacrificio. E’ più banalmente una questione di deontologia professionale, di ritorno alla passione per la notizia, per lo scavare nei fatti, per la descrizione di ciò che resta in ombra quando potrebbe fare luce, nel rigoroso rispetto della verità (documentale e testimoniale), nel controllo delle fonti. Quegli arnesi del mestiere che non sono soltanto regole formali ma sono la base del potere che l’informazione può – e deve – esercitare. Di controllo, di bilanciamento, di libertà, infine, di chi scrive e di chi legge! E’ la stampa ragazzi, siate fieri di questo mestiere e non offendetelo!
Sarebbe la premessa migliore per aprire la strada (FINALMENTE!!!) a una legge sull’informazione degna di questo nome anche in Molise. E’ tra le priorità dei primi 100 giorni di Frattura, se sarà di nuovo in lizza. Su questo, sì, vale la pena di incalzarlo senza fare il minimo sconto.

lunedì 18 giugno 2012

Zuccherificio. La "newco" è un imbroglio


Assistiamo a una perdita di senno collettiva dei politici di lungo corso che reggono il governo del Molise. Il meccanismo cui hanno dato vita li sta portando sull'orlo di un baratro. I casi si moltiplicano, ma lo Zuccherificio è emblematico. Il baratro del fallimento incombe, il tempo stringe. 
A quattro mesi dalla ricapitalizzazione decisa con procedura d'urgenza, chiamato un manager "esperto" a gestire la "exit strategy", ci troviamo tra le mani solo un piano insensato. A parte la richiesta, finalmente, di un concordato preventivo, auspicato dall'opposizione quattro mesi fa, non c'è lo straccio di un'idea, salvo quella, balzana e in odore di illegittimità, di una Newco, e quella di tagliare più di trenta teste di incolpevoli lavoratori. Eppure si potrebbe salvare ...



Trovarsi sull’orlo del baratro ed essere attratti dalla vertigine del vuoto
Non ho potuto fare a meno di pensare a questo “topos” classico esaminando le fasi conclusive – e convulsive – della ultra-decennale esperienza di governo della Regione Molise. Che cosa può portare alla perdita di senno collettiva un gruppo di politici di professione, di lungo corso, che hanno avuto sulle spalle la responsabilità di reggere le sorti di una Regione per tanti anni? (Sul modo in cui le hanno rette non ho bisogno di aggiungere commenti). Che cosa, se non un’attrazione fatale, ipnotica, verso il disastro? Appaiono vittime del meccanismo cui hanno dato vita e che ora li inghiotte in un abisso senza fondo.

I casi si moltiplicano ma intendo continuare a battere sul tasto dello Zuccherificio, quello per il quale il paragone del baratro è più calzante. Siamo agli sgoccioli, l’istanza di fallimento sarà discussa tra pochi giorni. Centinaia di lavoratori dello stabilimento, migliaia di coltivatori, trasportatori, commercianti sono coinvolti. E con loro i contribuenti molisani, cui sono state sottratte risorse, QUELLE DA LORO VERSATE NELLE CASSE DELLA REGIONE, frutto di sudati guadagni. Parliamo dunque di tanta gente, brava gente, destinata a subire i danni dei tanti errori commessi (se non dei delitti, se tali appariranno agli inquirenti). Persone che rischiano di assistere a un epilogo finale che di quegli errori potrebbe essere addirittura l’apoteosi, il festival.

Per gli antefatti, credo ben noti ai lettori, rinvio comunque a un mio post precedente. A inizio febbraio, dopo due anni di inerzia irresponsabile, dopo aver delegato la vicenda a un “capitano d’industria” (!) definito “Marchionne del Molise”, suona la sirena di allarme e si prospetta la soluzione-miracolo. Cacciare il socio infido e inadempiente e iniettare i fondi necessari ad evitare il fallimento diventando, come Regione, unici proprietari della struttura.
Un piano, una prospettiva, una “road map”? No, la parola d’ordine è “Io speriamo che me la cavo”.
Inutilmente l’opposizione (scontando, ovviamente, l’inevitabile babele di personaggi in cerca d’autore che fanno da zavorra ogni qualvolta debba avanzare un’ipotesi alternativa) tenta di far prevalere la ragione e il buon senso. Si devono preparare le dismissioni evitando la catastrofe e l’azzeramento del valore residuo dell’azienda? Come fare, se i suoi impianti sono gli unici sopravvissuti nel Mezzogiorno e i suoi conti sono strutturalmente in deficit?
Si può tentare una via di uscita, senza altre invenzioni (avventate e, si sospetta, alquanto truffaldine) ma prendendo esempio da chi ce l’ha fatta. Non è l’unica azienda rimasta, si può dunque sperare in una via di uscita sulle orme di chi ha continuato a produrre zucchero senza andare a gambe all’aria. Come?

Dare l’idea che la Regione possa essere il garante di ultima istanza, il soggetto che ripiana a piè di lista, è una follia, politica oltre che economica. Si deve piuttosto dare un segnale forte di volontà di risanamento offrendo una sponda a compratori “seriamente intenzionati” e “non perditempo”. Si può fare.
Ma la Giunta (rieletta, “sub judice”) decide di andare per la sua strada e ricapitalizza, provvedendo tuttavia a compiere una mossa sul piano gestionale che dovrebbe dare il segno della svolta. Viene chiamato un amministratore esperto di dismissioni e ristrutturazioni, dopo aver dato il benservito (con la condizionale) al socio.
Bene. Ora la Regione è socio totalitario ed ha nominato un amministratore esperto. Disastro scongiurato?
Mesi di attesa (più di quattro) e arriva finalmente la soluzione. In tre mosse.
1) Si “prospetta” l’idea di chiedere il concordato preventivo, per evitare il fallimento: in altre parole si prova a stipulare un accordo con i creditori perché accettino una decurtazione dei loro crediti. E’ quello che aveva chiesto dall’inizio l’opposizione, inascoltata: strada stretta ma percorribile se c’è un piano credibile di rilancio, potrebbe essere accettato come male minore rispetto a un fallimento “al buio” da cui si possono ricavare solo briciole.
2) Mentre si lavora a quella soluzione, non si “prospetta” ma si esige che “prima di subito” (entro il 31 maggio: ma siamo già a giugno inoltrato!) venga costituita una Newco, una nuova società che prende in carico la produzione mentre la vecchia, in odore di fallimento, sistema con il concordato preventivo le partite debitorie che restano pendenti.
3) Starà alla Newco elaborare un piano di rilancio. Intanto si anticipa però un particolare: i dipendenti dello Zuccherificio (attualmente poco più di 100) destinati al passaggio alla Newco saranno meno di 70. Tanto per dare l’idea che si fa sul serio.


Lo zuccherificio Saza di Avezzano, dismesso

Interviste di politici e amministratori a corredo: “soluzione dolorosa, ma il futuro è radioso.”
Fermiamoci un momento. Prima del baratro, per capire.

Cerchiamo innanzi tutto di chiarirci a proposito di una Newco. Viene inventata ai tempi d’oro della finanza d’assalto come società “veicolo” per un’operazione di acquisizione di una società-bersaglio che abbia un valore reale (azioni quotate, ovvero patrimonio al valore di mercato) molto superiore al valore del patrimonio scritto nei libri contabili. Non starò a spiegare i dettagli, ma mi limito a osservare che non è certo questo il caso che ci interessa (per chi volesse approfondire una spiegazione “accessibile” si trova sulla Stampa on-line). Nel nostro caso il valore reale è incomparabilmente INFERIORE.
C’è però un secondo genere di Newco, che nasce dall’adattare l’idea (in particolare nel nostro paese, ricco di inventiva) alla situazione opposta. Non il caso di chi cerca di comprare una società florida ma quello di chi cerca di vendere una società disastrata. Il cui valore reale sia cioè inferiore (molto) a quello che risulta dalle scritture contabili e che sia quindi in situazione pre-fallimentare. Parmalat e Alitalia i due casi emblematici.
In questa versione, la Newco è la società che i potenziali compratori sono invitati a costituire ex novo, priva di debiti, per rilevare la nuda e cruda attività della società in dissesto (inizialmente in affitto) ripartendo da zero e con un piano che garantisca l’equilibrio di bilancio per il futuro. Mentre i compratori iniziano il loro cammino senza portare alcun fardello, i venditori sistemano le pendenze della vecchia società, la “Bad Company”, in genere lasciandola fallire, altre volte cedendola a costo zero, se riesce a liberarsi dai debiti, alla Newco.
Emerge qui, dunque, la prima “anomalia” del piano partorito. Il presupposto di una Newco è che sia stato individuato il compratore. Qui si propone invece (“tomo tomo, cacchio cacchio”, direbbe Totò) che la Newco sia costituita … dai venditori!!! Si badi, nella letteratura sull’argomento si mette bene in evidenza come la sola presenza dei vecchi soci nella Newco (anche in posizione minoritaria) getti un’ombra sulla legittimità dell’operazione, che acquista immediatamente un carattere elusivo.
Come può aver concepito questo piano il manager del rilancio? Un amministratore esperto, abbiamo detto, niente da spartire con il Marchionne del Molise. Viene, è pur vero, dai cosmetici, che forse “ci azzeccano” poco con zucchero e barbabietole, ma ha comunque una esperienza di non poco conto essendo passato per la madre di tutti i crac, la Parmalat. Arriva a Termoli e si accorge che “un’azienda così mal ridotta” non ha paragoni conosciuti. Mi verrebbe da avanzare, come ipotesi, che abbia perso di vista un particolare non secondario. L’azienda agro-alimentare di cui deve occuparsi è un’azienda di totale proprietà pubblica.
Il dott. Alfieri era ancora troppo giovane quando è stata dismessa l’industria di stato dei panettoni e dei gelati, non ha forse dimestichezza con la storia degli anni in cui anche quel comparto figurava nel perimetro pubblico, eredità del fascismo, quando ormai le uniche eccezioni rimaste nel nostro paese si trovano nella repubblica socialista del Molise. Perché c’è una differenza abissale (se mi si perdona il ricorso ancora a questo termine) con il caso Parmalat. In quella vicenda il cuore del problema era rappresentato da piccoli risparmiatori (in possesso di azioni e obbligazioni) che erano stati spinti da banchieri senza scrupoli a investire in un’azienda che aveva taroccato i conti per nascondere un profondo rosso. Prima ancora dei creditori-fornitori, c’erano perciò da affrontare i piccoli proprietari e finanziatori. Da quel problema specifico e particolare era nata la soluzione Newco, in gran parte negoziata con alcuni dei creditori (i grandi finanziatori).
Lo Zuccherificio invece non ha azionisti diffusi ma un unico proprietario, che non è un capitano di industria ma un soggetto pubblico, la Regione Molise. E l’istanza di fallimento, rispetto alla quale si può prospettare un concordato preventivo come soluzione alternativa, è stata avanzata proprio dai fornitori-creditori. Che hanno dalla loro un argomento micidiale. La Regione non può fallire, la Regione non può fare altro che onorare i suoi debiti fino all’ultimo centesimo.
Dunque. Il concordato preventivo è un tentativo da fare, l’unico che può allontanare il fallimento, ma si regge solo sulla credibilità di un piano di dismissioni che salvaguardi la continuità aziendale e conservi i valori. La Newco costituita dallo stesso socio unico (ma come hanno potuto pensarlo???) è solo un artificio, e un raggiro, che nessun giudice potrebbe avallare in sede di autorizzazione al concordato preventivo e che nessun tecnico indipendente potrebbe certificare come soluzione economicamente e giuridicamente valida.

Quanto poi all’ultima anomalia, i “dolorosi” tagli, si è fortunatamente squagliata come neve al primo sole di primavera. Per seppellire definitivamente l’idea di decidere a priori quante teste tagliare, prima ancora di aver disegnato un futuro per l’azienda, è bastata una riunione al tavolo sindacale nazionale, con persone che vivevano nel mondo reale e non erano in stato di ipnosi: non se ne parla nemmeno. Se mai si dovesse procedere alla famosa Newco, nessuno degli attuali dipendenti rimarrebbe nella originaria Bad Company a fare da agnello sacrificale. Punto, e non se ne parla più.
Tirando le somme, ci sono voluti più di quattro mesi solo per raggiungere la conclusione n. 1, quella più scontata e auspicata dall’opposizione: tentare la strada del concordato preventivo. Senza però lo straccio di un’idea sul percorso che dovrebbe legittimarlo. Tutto il resto è fumo, o artificio contrario alle leggi, con tanto di dito nell’occhio degli incolpevoli lavoratori.

 
Lo zuccherificio di Giulianova, dismesso

E sì che nel frattempo è arrivato perfino un “aiutino” insperato dal governo Monti, sotto forma dell’annuncio di una modifica alla legge fallimentare proprio in materia di concordato preventivo. Il piano industriale potrà arrivare DOPO la presentazione della richiesta al giudice (fin qui doveva essere presentato insieme alla domanda). Dunque c’è qualche giorno in più per predisporlo. Con un contrappeso, tuttavia. I tecnici che dovranno asseverarlo non potranno avere alcun rapporto, né diretto né indiretto, con le parti in causa, a pena di nullità della procedura con tanto di responsabilità PENALE per chi incorresse in un qualche conflitto di interessi.
Saprà la Regione Molise trovare qualche tecnico davvero indipendente, tanto da non aver avuto alcun genere di rapporto con una istituzione, piccola, ma così attiva nel costruire reti di clientele? In quale area del globo? E saprà trovarlo abbastanza in fretta e capace di acquisire in poco tempo tutti gli elementi necessari a un giudizio equanime e competente, sotto la minaccia di una responsabilità penale?

Inutile girarci intorno. A due anni di cecità compiacente (verso il Marchionne isernino) sono seguiti quattro mesi di inerzia e stato confusionale.
Eppure, come ho cercato di dimostrare nell’ultimo post sul tema, le strade da seguire non sono molte. Diciamo pure che ci sono alcune mosse obbligate. Perché nessuna di queste è stata ancora compiuta?
Per inciso, sarei più che disposto ad illudermi che quegli atti siano stati compiuti, senza metterne al corrente il consesso regionale. Avrebbero recato offesa alla democrazia e alla trasparenza, ma almeno avremmo assistito a un qualche atto di governo e di buona amministrazione degno di questo nome. Se ne chiederebbe conto in sede politica, ma concedendo qualche indulgenza.
Invece no. Non si tratta né di astuzia volpina né di spregiudicatezza democristiana. Non si è proprio fatto nulla.
Parliamo, per cominciare, dei possibili compratori. Due soli soggetti in Italia producono zucchero, Eridania (Maccaferri) e Co.Pro.B. (i produttori di barbabietole consorziati). Chi li ha incontrati e con quali risultati?
Qualcuno ha pensato di riprodurre il modello Co.Pro.B. con i produttori locali di barbabietole? Si sono presi contatti con le associazioni (in particolare, oltre a quella molisana, con quella pugliese) e con la Regione Puglia che dei loro interessi dovrebbe farsi carico?
Ovvero, visto che ci si rifà al caso Parmalat, è stata sondata la disponibilità dei creditori a trasformare i crediti in titoli di proprietà?
E si è guardato fuori dal settore, nell’agro-alimentare locale, ad esempio? O nelle grandi catene di distribuzione, che possono avere interesse a tenere in vita una produzione da “marchiare”? O si sono sondate le possibilità che sia il management ad acquistare, o una cooperativa di dipendenti?
Ma per venire all’equilibrio dei conti, si è affrontato il tema del costo della materia prima? O si sono fatti solo i conti dei salari e degli stipendi (che incidono per qualche milione in tutto su un debito che si avvicina ai cento milioni). Come si pensa di intervenire sul prezzo riconosciuto ai produttori per la materia prima, superiore del 50% a quello riconosciuto dai concorrenti (italiani, intendo, lasciando perdere Brasile, o Europa est, o Sudan)? E si è pensato di attivare quella componente, non marginale, di risparmio che può venire dal riutilizzo delle rimanenze delle bietole (surpressate) per la produzione di energia da biomasse?

Ahimé, la risposta credo sia negativa su tutta la linea.
In definitiva, per concludere, potrei ragionare da uomo di parte – quale non rinnego di essere – e augurarmi quel passo nel baratro, fatale. Che facciano anche quest’ultimo scempio, il popolo molisano aggiungerà questo capo d’accusa alla lunga lista che ormai è stata compilata e punirà i responsabili come meritano, costringendoli ad abbandonare una volta per tutte i loro incarichi, così indegnamente ricoperti.
Ma il Molise non merita questa sorte. Perciò preferisco sperare che sappiano invece fermarsi. Che compiano il necessario passo indietro.
Dovrebbero anche passare la mano, ma non è nel loro DNA. Sappiano almeno, per una volta, ascoltare la voce della ragione, del buon senso, e anteporre gli interessi dei cittadini che li hanno eletti ai loro propri. E’ sperare troppo?

Sullo stesso argomento in questo blog:
- C'è un futuro per lo Zuccherificio. Quale?
- Zuccherificio. Una storia da raccontare. Da non dimenticare



mercoledì 30 maggio 2012

C'è un futuro per lo Zuccherificio. Quale?




Le elezioni sono di nuovo alle porte. La campagna elettorale non sarà la stessa dello scorso anno. Servirà a presentare i provvedimenti in cantiere per risolvere i grandi problemi, le emergenze di una regione che deve ripartire.
Torniamo sul tema dello Zuccherificio. Per un aggiornamento ma anche per esaminare più da vicino, oltre agli errori e alle difficoltà, le possibili vie di uscita, la strada da seguire.

Torno a parlare di elezioni in Molise.
Il tempo stringe.
Perché è probabile che si voti in autunno.
Perché in questa situazione la Giunta, che aveva già brillato per inerzia, insensibile alla gravità dei problemi, abbasserà del tutto la saracinesca. Almeno, non potrà lasciare il classico avviso “Torno subito”. Non torneranno.


La campagna elettorale sarà molto diversa da quella del 2011.
Gli eletti non dovranno accreditarsi, sono stati visti all’opera e misurati. Starà ai nuovi farsi conoscere e agli sconfitti aggiustare il tiro per la rivincita.
Il centro-sinistra non dovrà farsi apprezzare per il programma. Non può essere cambiato (almeno nelle linee fondamentali e nelle priorità) in pochi mesi.
Piuttosto, a partire dal candidato presidente Di Laura Frattura, dovrà dimostrare di essere andato oltre il programma e di avere utilizzato questi mesi per affrontare i problemi ed esaminare i dossier, partendo dai più urgenti e spinosi, per tracciare le linee dei provvedimenti da varare nell’immediato dopo-elezioni. Insomma, meno affermazioni di principio, molta concretezza. Questo chiedono i cittadini molisani.

Con “spirito di servizio”, come si dice in questi casi, per portare anch’io il mio sassolino, riprendo un tema, di quelli scottanti e urgenti, cui ho dedicato un pezzo alcune settimane fa. Il “disastro” dello Zuccherificio del Molise.

Senza spacciarmi per esperto di economia aziendale, senza avere specifiche conoscenze sul settore bieticolo-saccarifero, in base a quel tanto di nozioni di economia applicata che ho appreso negli anni, a qualche esperienza di “tavoli” di salvataggio industriale e, soprattutto, pretendendo di saper fare di conto, vorrei fornire al lettore interessato qualche aggiornamento sul tema già affrontato (http://molise11.blogspot.it/2012/02/zuccherificio-una-storia-da-raccontare.html) con un approfondimento relativo al da farsi. Anche stavolta chiederò che si armi di santa pazienza (una calcolatrice non guasterà).

Per cominciare, credo si debba biasimare, senza mezzi termini, la supponenza e l’insensibilità dei governanti (fin qui) della Regione in una materia di questa delicatezza e di questa drammaticità.
Incombono istanze di fallimento, i conti sono in profondo rosso, a spese dei contribuenti molisani, le prospettive produttive quanto mai incerte, i pagamenti bloccati. Ma Michele Iorio ritiene di poter dichiarare (il 2/3/2012) che “il gruppo di lavoro sulla continuità aziendale (costituito a seguito della mozione PD nel Consiglio che si era tenuto un mese prima sull’argomento) raggiungerà nella prossima settimana conclusioni … che consentiranno la rapida attuazione delle decisioni attinenti la ricapitalizzazione e il rilancio produttivo dello Zuccherificio”. Effettivamente per la ricapitalizzazione è bastata una riunione di Giunta, avvenuta due settimane dopo per attuare quanto deliberato dal Consiglio. Ma il rilancio produttivo?
Appena qualche giorno dopo (6/3/2012), risponde così a un’interrogazione di Francesco Totaro: “non c'è, da parte nostra, nessun ritardo colpevole, anzi c'è l'attenzione necessaria per salvaguardare questa struttura. Esprimo personale ottimismo sulla soluzione finale della questione“ Tralascio di commentare l'autodifesa sul “ritardo colpevole” alla luce di quello che la Giunta Iorio doveva fare e non ha fatto (e di quello che non doveva fare e ha fatto) negli ultimi cinque anni. Quanto all’’ottimismo. non credo fosse motivato da altro che dall’esito dell’incontro di due settimane prima tra gli assessori molisani competenti () e il Ministro Catania, che aveva garantito lo sblocco dei fondi CIPE (annualità 2009) per il bieticolo-saccarifero, lungamente e vanamente sollecitati in precedenza al Ministro Galan, per 35 milioni (cui se ne devono aggiungere 30 per il 2010). Mentre, in contemporanea, dall’AGEA arrivava la “positiva notizia” del “pronto utilizzo” dei 19 milioni dovuti.




Ora, potrei dire che la disponibilità di fondi non è di per sé una buona notizia se i destinatari non sanno utilizzarli che per tappare le falle da loro stessi create e per dilapidarne altri, in nome della logica che li ha sempre guidati, la ricerca del consenso immediato, senza futuro, fine a se stesso. Ma per non inasprire i toni polemici mi limito a riportare un comunicato emesso, tre mesi dopo l’incontro (23/5/2012), dai sindacati nazionali dell’agro-alimentare che congiuntamente, prendendo a cuore le sorti di Termoli, lamentano il fatto che tutti gli operatori bieticolo – saccariferi attendono ancora l’erogazione degli aiuti riferiti alle campagne 2009 e 2010 in attuazione degli impegni a suo tempo assunti e più volte confermati dal Governo”. Ottimismo?
E, guardando alla parte opposta dello schieramento politico, davvero Paolo Di Laura Frattura è un visionario, o un “gufo della sinistra”, come si auto-definisce ironicamente, quando parla (8/4/2012) di una “ennesima pagina buia” e di “triste cronaca di una morte annunciata per crisi" a proposito delle notizie di stampa sul fatto che “la produzione potrebbe saltare per la mancanza di materia prima”?

Veniamo allora ai fatti e alle cifre che possono dare al lettore un’idea più precisa della consistenza dei problemi. Potremo così ragionare sulle strade che si dovranno percorrere, se alla guida finalmente ci sarà un governo animato dalla volontà di operare per il bene dei cittadini, a partire dai più deboli.
Partiamo proprio dalle notizie di stampa a cui si riferisce Frattura. La fonte non è l’ultimo arrivato. E’ Alberto Alfieri, il nuovo manager chiamato in soccorso dalla Giunta per tentare di porre rimedio al disastro, che dichiara di non aver mai visto un'azienda in condizioni così disastrate … uno stabilimento trasandato, con macchinari vecchi, in una situazione niente affatto compatibile con gli ingenti investimenti - circa 60 milioni di euro, tra versamenti di capitale e finanziamenti - effettuati negli ultimi due anni dalla Regione".

E’ difficile immaginare che sia prevenuto, o ostile verso chi gli ha conferito tanto incarico. Ma per maggiore tranquillità, in ossequio a un rigoroso principio di obiettività, farò parlare l’Assessore Scasserra citando le cifre che fornisce in occasione della discussione della mozione Totaro a cui abbiamo già fatto riferimento. Ecco quanto dichiara, stando alla trascrizione ufficiale, riportata testualmente: “Oggi c'è l'emergenza dettata dalla necessità di addivenire ad un numero consistente di ettari a semina primaverile, perlomeno speriamo altri 4 mila. Se dovessimo raggiungere i 4 mila più i 5 mila che sono stati già seminati, ciò consentirebbe di fare una campagna dignitosa, ma non ottimale.

La prosa trascritta non rende giustizia all’eloquio di Scasserra ma le cifre sono chiare. Facciamo dunque qualche conto prendendo per buona l’ipotesi “speriamo che me la cavo” di 9mila ettari messi a coltura.
A questa ipotesi dovrebbe corrispondere, stando al resoconto di stampa del consiglio di amministrazione e dell'assemblea dei soci che si sono tenute l’11/5/2012, una quota produttiva, posta come obiettivo da raggiungere nel 2012, di trentamila tonnellate, per assicurare un conto in pareggio. Questi sono infatti i conti esposti in quella occasione dall'assessore Vitagliano, solitario componente dell’assemblea dei soci, ridotta a “organo monocratico della Regione”, che ha voluto anche far sapere di aver “conferito mandato pieno ad Alfieri sia per avviare la campagna bieticola 2012, sia per cominciare il percorso di ristrutturazione dell'azienda, di cui a breve dovrà portare a conoscenza tutti sul nuovo piano industriale.
Perdoniamo anche in questo caso la trascrizione e passiamo a fare qualche conto. Nella campagna 2010 (l’ultima che possiamo definire “normale) gli ettari coltivati erano stati 13.500 (l’obiettivo 2012 si ferma dunque esattamente a due terzi) e la resa era stata di 128,3 kg. di zucchero per ettaro. Mettendo insieme le dichiarazioni dei due assessori scopriamo dunque che, se la resa attesa è la stessa del 2010, ci si aspetta che la campagna non superi i 5.300 ettari, con buona pace della speranza espressa da Scasserra che se ne aggiungessero 4.000. Perché se invece fossero coltivati 9.000 ettari avremmo un calo della resa impressionante: ancora peggio!

Eppure Gianfranco Vitagliano nello scomodo ruolo solitario di “dominus” dello Zuccherificio ci dice che i conti saranno in pareggio.
I conti non sono stati in pareggio con ben più del doppio di ettari coltivati: si sono anzi accumulate perdite assai significative. Oggi poi lo stabilimento è perfino più “trasandato” di allora. Se non altro per il susseguirsi di furti (cavi, recinzioni, per cifre a sei zeri). Non può pretendere di essere creduto.

Ma non finisce qui. Andiamo avanti con i conti perché dobbiamo prendere in considerazione anche il prezzo. Era stato stabilito, nell’agosto del 2010, per il triennio 2011-2013, con grande soddisfazione dei bieticoltori, in 45,5 €/t. La tabella per la stagione in corso - che, si badi bene, era stata contrattata nell'agosto del 2011 partendo dall’ipotesi di una superficie effettiva coltivata di 14.000 ettari, per una produzione di 100.000 tonnellate di saccarosio, che non ci si sogna più di raggiungere – arrivava e prevedere un costo a carico della società, quindi al netto dei contributi europei (art. 68 reg. CE) destinati ai produttori (per € 7,5/t) di 47,5 €/t riservato ai produttori delle province di Campobasso, di Foggia e della valle dell’Ofanto (un po’ meno per quelli più distanti, considerando il costo aggiuntivo del trasporto). Il ricavo per il produttore, con l’aiuto previsto dal Regolamento comunitario, sale a 55 €/t.


Ora, al lettore potrebbe interessare qualche confronto. Sapere, ad esempio, che lo Zuccherificio Eridania di S. Quirico (PR) e quello Co.Pro.B. di Pontelongo (PD), che rappresentano oltre i 4/5 della lavorazione di barbabietole da zucchero in Italia, sopportano un onere (in base al prezzo concordato in sede di accordo interprofessionale) di 29,29 €/t.
Eppure si parte per tutti dal prezzo base fissato a livello europeo di 26,29 €/t.

Da dove proviene una simile differenza di prezzo? Possono stare in piedi i conti di uno stabilimento che paga la materia il 50% (abbondante) in più dei concorrenti? Dove intervenire, dove correggere?

Il lettore di buon senso, quello che non si nutre di anti-politica e mantiene una salda fiducia nelle istituzioni e nei rappresentanti eletti, sarà convinto che queste domande se le stiano ponendo i componenti del tavolo tecnico, che stanno “stressando” (che belli gli anglicismi che sostituiscono il latinorum per gettare fumo negli occhi!!) il piano industriale (quale versione? di quale annata?). Penserà che siano l'assillo costante delle notti degli assessori competenti (). Avrei voluto esserne convinto anch’io ma non ho trovato il minimo indizio che ciò stia accadendo.
Mi sono dunque dovuto rassegnare a fare da solo e provo a mettervi a parte delle risposte.

1) La differenza di prezzo. Deriva dal fatto che le associazioni dei produttori di barbabietole delle regioni del nord “hanno individuato la via della trasformazione delle polpe surpressate di spettanza dei coltivatori in biogas per la produzione di energia elettrica, programmando la realizzazione di una serie di impianti nei comprensori vicini agli zuccherifici, riversando gli utili ricavati sul prezzo delle bietole”. Ce lo spiegano M. Guidi, Presidente di Confagricoltura e di A. N. B. e A. Mincone, Presidente di C. N. B. (le due associazioni nazionali dei bieticoltori).
Di quanto parliamo? Parliamo di 5,9 €/t. Al contrario in Molise è la Regione (nella veste di Zuccherificio spa) che si accolla 2,5 €/t per valorizzazione energetica delle polpe (che non valorizza) e 1,6 €/t per rinuncia dei produttori alle polpe stesse (che nessuno, dunque, valorizza ma la Regione “ricompensa”). Aggiungiamo poi che gli Zuccherifici del Nord-Est si accollano 3 euro di integrazione sul prezzo europeo (che infatti sale da 26,29 a 29,29) mentre in Molise l’extra a carico della regione raggiunge la ragguardevole cifra di 17,11 €/t (di cui 9,01 come integrazione, mentre altri 8,1 appaiono a titolo di “incentivo” ai produttori).
2) Possono stare in piedi i conti? Sarebbe un miracolo se la produttività nella fase di lavorazione riuscisse a compensare un simile handicap. Ma è tutto il contrario. Le bietole lavorate giornalmente in fabbrica sono un po’ meno della metà rispetto ai concorrenti (dato 2011): anche se i giorni di lavorazione industriale sono invece tra il 15% e il 50% in più, la produzione vendibile per ettaro resta nettamente al di sotto in termini di valore: 2.130 € contro i 2.460 € di San Quirico e i 2.660 € di Pontelongo. Per ogni ettaro coltivato, a parità di resa in barbabietole, si paga dunque di più e si ricava di meno. Non può stare in piedi.
3) Prima di ragionare sugli interventi da fare bisogna dare una risposta chiara alla domanda preliminare: c’è una alternativa alla resa incondizionata? La risposta è affermativa, e l’esempio del nord lo dimostra. Ma la strada è radicalmente diversa da quella seguita fin qui. E non è un caso che gli stabilimenti concorrenti siano in mano, l’uno all’unico produttore privato, con una dimensione internazionale, rimasto in circolazione (Maccaferri, Eridania), gli altri due ai produttori consorziati e perciò direttamente motivati al successo economico non solo nella fase industriale ma fin da quella agricola.
E’ da lì dunque che deve partire l’intervento. Produrre barbabietole in Italia può ancora essere conveniente e remunerativo. “Bietola. Finalmente un’annata ok” titola G. Gnudi su “Terra e Vita” n. 41/2011. Ottime rese, ottima qualità, remunerazioni del tutto soddisfacenti per i produttori. Piange solo l’azionista unico dello Zuccherificio del Molise (e più ancora i suoi fornitori e salariati).
Occorre dunque, per prima cosa, coinvolgere i produttori (molisani e pugliesi innanzi tutto). Stabilire una collaborazione stretta, in un clima possibilmente di sintonia anche politica su ideali e obiettivi condivisi, con la Regione Puglia e con le realtà associative dei produttori delle due regioni. La qualità della barbabietola “appulo-molisana”, quanto a “polarizzazione”, è migliore di quella delle regioni padane. La resa per ettaro può e deve migliorare.
In secondo luogo, la valorizzazione energetica delle polpe “surpressate” non può restare lettera morta. Se non se ne fanno carico i produttori, come avviene nel nord-est (scontando il prezzo relativo) dovrà attrezzarsi il lato industriale (a questa previsione economico-finanziaria deve dare risposta il sospirato piano industriale) in proprio o attraverso un terzo soggetto. Il risultato non deve essere però al di sotto di quello che è stato ottenuto al nord.
Infine gli investimenti sullo stabilimento. Nel nostro Paese c’è un livello di competenza ingegneristica nel campo dei macchinari industriali che non ha eguali al mondo. Abbiamo superato la Germania sui mercati più ricchi e su quelli più in crescita. Avanti tutta, quindi, per le soluzioni più avanzate.
Muovendo questi tre tasti lo stabilimento di trasformazione può di nuovo essere vendibile. Per continuare a produrre, non per consentire all’ennesimo “furbetto” di lucrare perpetrando ancora un furto con destrezza ai danni del contribuente.
C'è una priorità banche e fornitori? Ovvio, ma solo nel senso che si deve scongiurare il fallimento e la chiusura dei rubinetti nell'immediato. Si può fare se ci si presenta con un'idea credibile, un progetto convincente costruito su scadenze precise da rispettare ad ogni passo. A queste condizioni il problema può scalare nell'ordine delle priorità e diventare il passo n. 4, a suggello dei tre già indicati. E andare a coincidere con la messa sul mercato a condizioni accettabili.

L’alternativa insomma è possibile. Guida prudente, con mano sicura, su una rotta ben tracciata. Appena i tempi saranno maturi. Prima possibile.

giovedì 17 maggio 2012

Una pagina nuova. Finalmente!


Ho cambiato il titolo del mio blog.
Oggi, 17 maggio, non abbiamo solo preso atto di una sentenza del Tar. Abbiamo assistito a una scena madre.
Per il Molise si apre una pagina tutta nuova. Ora gli elettori sanno con certezza che l'era dell'impunità è finita. Che il potere è nudo e non fa più paura. Se lo si ama lo si vota, se lo si condivide lo si vota. Se no, si è LIBERI di scegliere.
Il centro destra potrà tornare alle urne e vincere ancora una volta. Ma potrà contare solo sulle ragioni della politica, quelle ragioni che ha calpestato e svillaneggiato quando tentava di usarle l'opposizione, che non ne aveva altre.
Era bello vincere facile. E si è pure fatto strada tra gli avversari l'opportunismo, figlio della rassegnazione e padre di nuove sconfitte. Ma il 16 ottobre si era capito che l'aria era cambiata. Ben prima della sentenza, prima ancora della proclamazione del risultato, il cambiamento era stato testimoniato dalle luci spente anzitempo nel quartiere generale dell'ex Governatore (ora, ex a tutti gli effetti). Dalle sezioni era arrivato un risultato chiaro.
Ci sono voluti altri sette mesi di agonia. Può darsi che siano serviti a qualcosa. A prendere le misure degli eletti. A toccare con mano la drammaticità della situazione. A entrare nei meandri dei dossier più spinosi, quelli dove la mala gestione ha provocato più danni. Ma la situazione della gente, dei molisani, non poteva che peggiorare. E le responsabilità si fanno più pesanti. Ma la passione intanto è cresciuta, con la sicurezza nei propri mezzi e con il consenso tra i cittadini.
C'è chi fa gli scongiuri perché deve ancora pronunciarsi il Consiglio di Stato. Ma il TAR non ha lasciato molti margini. L'importante è che si faccia presto.
Storia maestra di vita. A questo sono serviti i sette mesi appena passati.
Si ricomincia daccapo. Ma in realtà comincia una nuova storia.
Ero partito un anno fa con l'idea che il 2011 avrebbe portato al Molise un domani migliore. Siamo nel 2012, il domani è qui, ora non si scappa. Dobbiamo viverlo. E vincere.

lunedì 7 maggio 2012

1 Maggio. Non è stata una festa. III parte


Come reagire alla caduta dei redditi di lavoratori e pensionati.
Per andare all’origine di questo fenomeno drammatico in cui si riassume il declino del nostro paese: come è potuto succedere?
Nelle due puntate precedenti si sono passate in rassegna le risposte correnti a questa domanda ma ci si è anche chiesti se i sindacati potevano fare di più. Se non aver attuato la Costituzione (art. 39) su rappresentanza e unità non abbia comportato un prezzo troppo alto. E se la rottura odierna attorno al rapporto con la politica non abbia contribuito a deprimere il potere contrattuale.
In questa ultima puntata si passa a un terreno concreto. Quello della difesa dei lavoratori precari. Per esaminare le ragioni di una iniziativa del tutto inconcludente.
E per immaginare un’alternativa. Possibile.

I REDDITI DEI LAVORATORI SCENDONO INESORABILMENTE. CHE C’E’ DA FESTEGGIARE IL PRIMO MAGGIO?

Concludiamo con questa terza puntata il discorso sulla perdita progressiva di potere di acquisto dei redditi dei lavoratori e dei pensionati.

Nelle precedenti puntate ho lamentato che non ci si domandi – almeno, non quanto sarebbe necessario di fronte a una tragedia sociale di questa portata - come sia potuto succedere ed ho passato in rassegna le spiegazioni che vengono date comunemente: la globalizzazione (lo squilibrio tra il potere della grande finanza, globale, e le politiche nazionali ovvero, secondo altri, il livellamento dei redditi da lavoro - per una sorta di legge dei vasi comunicanti nel mercato globale - tra paesi ricchi e paesi emergenti); la destra radicale al governo su scala nazionale (e europea) e la sua politica classista contro i lavoratori per caricare sulle loro spalle il peso della competizione globale; la debolezza dell’opposizione; l’egoismo corporativo delle rappresentanze imprenditoriali.
Ho poi sostenuto che non ci si può accontentare di queste risposte senza chiedersi anche se i sindacati abbiano fatto tutto il possibile per impedire questa deriva (se non altro, per portare gli imprenditori a giocare un altro ruolo).
Ho quindi affrontato, nella seconda puntata, il tema della perdita di potere contrattuale dei sindacati in relazione alla mancata attuazione della Costituzione (articolo 39) quanto a regolazione della rappresentanza e unità, con la conseguente assenza nel nostro ordinamento di un riconoscimento formale della validità erga omnes dei contratti. Cosicché attualmente chiunque, una volta costituitosi come sindacato, può stipulare accordi con le controparti a prescindere dal suo peso organizzato e dalla sua rappresentatività, laddove la Costituzione richiedeva che “fossero rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti” come condizione perché i contratti collettivi di lavoro da loro stipulati avessero “efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
In particolare, essendo assai complessa la storia della mancata attuazione di questo articolo della Costituzione, mi sono limitato a ricordare come, in un tempo più recente, sia stata accantonata perfino la soluzione con cui si erano congelati i rapporti tra i sindacati, riassunta nella formula dell’unità d’azione, che pure aveva retto all’onda d’urto della vicenda scala mobile, passando ad una rottura aperta (con qualche timido segnale di riavvicinamento solo negli ultimi mesi, contro il governo Monti).
Ho infine rimarcato che le ragioni della rottura riguardano l’interpretazione del ruolo del sindacato nei rapporti con le istituzioni e con le forze politiche. Dunque, un tema che dovrebbe appartenere alla tattica, mentre ha avuto il sopravvento sul fine strategico, la tutela degli interessi dei lavoratori. Non a caso, anziché marciare divisi per colpire uniti (come potrebbe avvenire se si trattasse di una rottura tattica), perfino quando sembrano marciare uniti, sono pronti a dividersi nel momento cruciale, quello in cui sono chiamati a colpire.

LA DIFESA DEI LAVORATORI PRECARI. TEMA CENTRALE, INIZIATIVA INCONCLUDENTE

In questa parte conclusiva mi sono ripromesso di approfondire un tema specifico per tentare di calare il ragionamento svolto fin qui in un contesto più concreto: la difesa dei lavoratori precari. Non solo perché è comunemente assunto come tema centrale ma anche perché, a mio parere, vi si può ritrovare un bandolo della matassa aggrovigliata di cui stiamo parlando. Quasi un riassunto, un concentrato in cui si specchia la situazione nel suo assieme.  
Parto dal presupposto, già enunciato nel post precedente, che non si debba commettere l’errore di pensare che la strada della difesa dei più deboli passi per una minore tutela dei più forti. Viceversa i più forti devono assumere con grande decisione la causa dei non tutelati e rimboccarsi le maniche per dar loro tutto il sostegno di cui hanno bisogno, altrimenti la loro debolezza, crescendo, minerà alla radice anche le loro posizioni attuali, come di fatto sta avvenendo.

E’ diffusa, nella cultura e nella pratica sindacale, questa convinzione? E’ ben radicata? Direi di no. Nella mia (alquanto lunghetta) esperienza sindacale mi sono trovato fin troppe volte a dover vincere una resistenza tenace, a cui corrispondeva un pregiudizio culturale molto tenace, su questo tema.
Non parlo della necessità di organizzare i disoccupati, difficili da intercettare. Certo, guardando le serie storiche del tesseramento ci si rende conto però di quanto debole sia lo sforzo in questa direzione. A questo riguardo, tuttavia, quella che colpisce è l’assenza assoluta di esempi di iniziativa generale, ampia, convinta, propositiva, dopo la stagione del Patto per il Lavoro con cui Di Vittorio inaugurò il nuovo corso del sindacalismo CGIL dopo la guerra.
Ma al di là del tema, più impegnativo, dei disoccupati, qui mi riferisco alle resistenze che ho incontrato ogni qualvolta si trattava di organizzare i precari, quelli impegnati all’interno stesso del posto di lavoro. C’è stata spesso da vincere una battaglia. Non potete immaginare quante volte mi sono sentito dire: “Non è il caso di dar loro la tessera, ‘ché potrebbero considerarla come una sorta di impegno per l’assunzione”. Paradossale, no?
Ebbene, credo proprio di poter dire che verso questa cultura, questa diffidenza, c’è stata come minimo condiscendenza da parte delle strutture sindacali di base ma anche disattenzione delle confederazioni, territoriali e nazionali.
Parlo, per esperienza diretta, della CGIL (ma le altre sigle hanno di che interrogarsi sugli errori commessi). Potrei portare un gran numero di esempi ma mi limito a citare solo il terremoto che ha sconquassato il mondo della sanità dall’inizio degli anni Novanta. Allora, quando doveva crescere negli ospedali l’offerta sia di servizi qualificati da parte di personale infermieristico sia di servizi “alberghieri”, senza far lievitare i costi, si è by-passato il vincolo contrattuale, relativamente oneroso, con un’invasione di cooperative sociali, il cui personale era sottopagato e soggetto al ricatto dei licenziamenti (con un tasso di sindacalizzazione, inevitabilmente, molto più basso). Ma non ne hanno pagato le conseguenze anche i dipendenti pubblici?

UN CASO CONCRETO. UN’ASSOCIAZIONE DI LAVORATORI PRECARI.

Le cose non sono cambiate negli ultimi anni. E’ stata forse adottata un’altra politica da quando la precarietà è diventata il centro di ogni discorso sul lavoro? Non credo. Per andare ancor più su un terreno concreto porto un esempio molto recente. Riguarda la vicenda della riforma del lavoro.
Prendo spunto dall’attività di un’associazione - si chiama “XX maggio-flessibilità sicura” - che si è costituita dal 2007 all’interno del Forum Lavoro del PD, con l’obiettivo di combattere la precarietà e di affermare una civiltà delle condizioni di lavoro anche nei contesti più flessibili.
Ha un sito Internet, promuove iniziative varie (convegni, manifestazioni, pubblicazioni) è presieduta da un “sindacalista di lungo corso” CGIL, oggi Consigliere presso il CNEL (Aldo Amoretti, già segretario generale dei tessili, del commercio) e annovera tra gli animatori più attivi un altro sindacalista, attivo presso il Dipartimento economico del Centro confederale (Davide Imola).
Per il tramite del Forum Lavoro questa Associazione ha indirizzato al Gruppo PD in Commissione Lavoro del Senato (che ha il compito di esaminare gli emendamenti) una serie di proposte di modifica del testo del Governo. Riguardano, in sintesi, l’introduzione di vincoli di qualifica (escludere tutte le mansioni esecutive) e di minimi salariali, cioè della contrattazione collettiva.
Vi è previsto un meccanismo di garanzia per ottenere questo risultato in modo certo e stabile: l’aumento delle aliquote contributive già previsto dalla riforma (buona idea, a condizione che il maggiore onere non si scarichi sui compensi) scatta solo dopo che un accordo collettivo avrà fissato i minimi salariali, con un tempo limite per raggiungerlo, passato il quale interviene il potere sostitutivo del Ministero del Lavoro.
Altri emendamenti riguardano l’estensione anche a questa categoria dei nuovi ammortizzatori sociali (Aspi) e dell’indennità di disoccupazione, l’allargamento della platea interessata, l’apprendistato, il trattamento di maternità per parasubordinati e autonomi, la mutualità integrativa per gli autonomi.
Che fine faranno questi emendamenti? Non so dirlo, non credo avranno vita facile. Ma quale mobilitazione fornirà il sostegno necessario? Quella di partito ha le caratteristiche (e i limiti) che sappiamo, l’Associazione potrà mettercela tutta ma sarà pur sempre una campagna di opinione. E i sindacati?

La CGIL, basta aprire la home page del sito per verificarlo, pone al centro in questi giorni proprio la preparazione della giornata nazionale di lotta contro la precarietà. Ottimo. Dunque si potrebbe immaginare che le strutture CGIL si stiano attrezzando per affrontare nei luoghi di lavoro una giornata di mobilitazione e di apertura di vertenze.
La mobilitazione dovrebbe servire per sostenere le modifiche al DDL sul lavoro. Se la si porta nei luoghi di lavoro si può intrecciare con un’iniziativa diretta, sul campo, per puntare a raggiungere accordi sul trattamento salariale dei parasubordinati. Tanto più dove questi sono impegnati a fianco dei lavoratori dipendenti e magari sono anche tesserati CGIL (vi sono posti di lavoro dove si sono fatti passi avanti rispetto alle chiusure che ho ricordato sopra).
Ma è così che sta andando? L’agenda delle iniziative preparatorie, fitta (se ne contano in questo momento un centinaio) prevede volantinaggi, presidi, assemblee comunali, qualche sciopero di zona (su vertenze territoriali generali). Le assemblee di luogo di lavoro sono una mezza dozzina, in due casi con sciopero (si può immaginare che la vertenza riguardi il lavoro precario). E’ anche questa, dunque, prevalentemente una campagna di opinione. Serve a sostenere una proposta politica. Ha lo stesso carattere della mobilitazione che può mettere in piedi l’Associazione XX maggio, sia pure con l’estensione e la capacità organizzativa di cui è capace una grande Confederazione sindacale.

Non è il solo limite. C’è un altro (piccolo?) particolare. La campagna non sostiene alcuna proposta specifica, concreta. Contiene solo una critica, radicale, dura, inflessibile, a tutto ciò che non va del DDL lavoro.
Direte, va bene lo stesso, anche se non serve a supportare una campagna su proposte precise e concrete, va nella stessa direzione. Però … c’è anche qui un però. Prendete allora il testo del documento CGIL di critica al DDL lavoro e esaminate le parti dedicate al lavoro precario, alla parasubordinazione. Le sei righe dedicate all’argomento definiscono l’obiettivo del DDL Fornero “lodevole” in quanto segna un’”inversione di tendenza apprezzabile” e tuttavia considera le misure previste “insufficienti”. E si porta come esempio proprio il fatto che “manca un vincolo ad un livello di reddito al di sotto del quale sia impossibile attivare le collaborazioni”. Si badi bene: non si indica l’esigenza di un minimo contrattato ma si richiede un minimo legale, per evitare “il rischio che l'aumento contributivo, giusto, si scarichi sui compensi dei collaboratori”. Conclusione, la critica dura (ad esempio sugli esodati) si ammorbidisce molto su questo tema.
Ho dato un quadro parziale? Chi fosse interessato può provare ad allargare lo sguardo ad altre iniziative in ambito CGIL. Visitare il sito di Nidil, che è l’organizzazione di categoria degli “atipici”, che raccoglie gli interinali e i parasubordinati. O quello dei Giovani CGIL organizzati attorno alla campagna “NON + DISPOSTI A TUTTO” e in particolare la loro piattaforma contro la precarietà. Una campagna dello scorso anno che non ha però avuto seguito. La sola traccia recente lasciata dai Giovani CGIL è il documento a loro firma “tutte le bugie sulla riforma del lavoro” completato da una guida alla riforma. Il quadro insomma non cambia.

TROPPO DIFFICILE TUTELARE IL LAVORO FRANTUMATO E INDIVIDUALIZZATO? UN ALIBI TROPPO COMODO

Spero che risulti chiaro il senso di questa parte conclusiva dedicata al sindacato (alla CGIL, con più precisione). Se a fatica si sta facendo qualche passo avanti per organizzare anche il lavoro precario, non si dà tuttavia un seguito allo sforzo organizzativo. Non sul piano dell’attivazione di vertenze strettamente sindacali per tutelare redditi e condizioni di lavoro nelle situazioni specifiche, concrete. Ma neanche su quello della individuazione di obiettivi politici, che richiederebbero quindi percorsi e strategie rivolte verso le istituzioni.
Anzi, si tengono rigorosamente le distanze da chi tiene rapporti all’interno dell’ambito istituzionale. Anche quando si tratta, come nel caso dell’Associazione XX maggio, di volti appartenenti all’album di famiglia. Non troverete una sola citazione di quell’Associazione in tutto il portale della CGIL.
Autonomia del sindacato dai partiti? Non scherziamo.

Non è facile, sento dire a discolpa. Il sindacato è per sua natura organizzazione di massa, non può farsi portatore che degli interessi comuni ai grandi numeri. Se il lavoro si frantuma e si individualizza, entra in difficoltà.
Non è anche questa una risposta facile? Che fa da alibi per non ricercare soluzioni difficili ma possibili?
Si provi a pensare questo: i grandi numeri premono per contratti collettivi da grandi numeri, quindi standardizzati, quindi regolati all’interno del quadro grande (“macro”) dell’economia. Per intenderci, per i grandi numeri ci vuole un accordo interconfederale (come quello con Ciampi nel ’93) che però, questo il suo difetto, finisce per essere, oltre che necessario, sufficiente. Fatto quello, quale altro compito spetta al sindacato? Il contratto nazionale si fa con la calcolatrice da tavolo applicando formule matematiche. Il conflitto distributivo finisce lì, il resto è, per dirla un po’ brutalmente, sceneggiata.
Paradossalmente, il sindacato si è salvato proprio grazie all’individualizzazione. Non fa più contratti collettivi, su quel piano fa solo grandi accordi di concertazione, però serve ai lavoratori e ai pensionati. Serve in quanto dà loro servizi. Individuali. Supplisce all’inefficienza dei front-office di Agenzia delle Entrate e INPS. Caso unico al mondo.
Siamo sicuri che lo sforzo organizzativo che serve per dare risposte agli individui precari, che non sono grandi numeri, sia davvero maggiore di quello messo in piedi per allestire Patronati e CAF? Serve però pensiero strategico.
Infine. Alla rinuncia a rappresentare i precari perché dispersi e frantumati fa riscontro (già da molto più tempo) quella a rappresentare le professioni (quelle con rapporto di subordinazione, intendo), le competenze elevate, gli specialisti. E poi le particolarità territoriali. E poi il merito.
Pensate davvero che l’idea di un contratto nazionale sia stata meno rivoluzionaria nel tempo in cui le paghe (settimanali) venivano considerate un compenso “ad personam” perfino nello stesso stabilimento, negozio, ufficio?

Fermiamoci qui. In definitiva, se ai partiti non può spettare il ruolo di farsi portatori di interessi particolari e di organizzare i soggetti che li esprimono, perché a loro spetta quello della sintesi e della mediazione. Se tuttavia proprio sul terreno della tutela degli interessi il sindacato ha ceduto spazi enormi andando ad occupare – impropriamente – quello della mobilitazione su temi generali. E se questa mobilitazione si dimostra inconcludente, proprio perché disconnessa – volutamente – dai soggetti politici, cui istituzionalmente spetta anche, in una democrazia ordinata, la “finalizzazione”, il fare gol, portando all’approvazione leggi di portata generale. Se tutto ciò si verifica, che conclusione dobbiamo trarne?
Che quegli interessi non riescono a trovare tutela, non hanno risposte.
Né dai partiti, perché mancano loro le gambe, né dai sindacati, portatori degli interessi specifici, perché manca loro la testa, non avendo cittadinanza nelle istituzioni. Mentre hanno rinunciato a usare le gambe, che sono robuste e potrebbero sferrare qualche calcione. Non al vento. Al bersaglio.
Interessi privi di tutela. Di questo parla, a me sembra, anche l’apologo che ho raccontato e da cui ho preso spunto come esempio. Vedremo come andrà a finire con la vicenda riforma-lavoro. Personalmente vedo un finale già scritto, già visto. Con qualche novità positiva ma con tante aspettative deluse.

UN ALTRO PRIMO MAGGIO?

E se il primo maggio, anziché festeggiare a casa di uno dei tre leader confederali (per chi si fosse domandato come mai la scelta di celebrarlo a Rieti, è da lì che viene Angeletti: a Chieti o a Milano l’anno prossimo?) lo avessimo invece scelto come data proprio per indire la giornata nazionale di lotta (unitaria) alla precarietà? Magari, avremmo potuto usarla per portare in ogni casa una piattaforma concreta di modifiche al DDL lavoro (quattro o cinque, non mille, ma pesanti!). E, se non è fantascienza, per lanciare una vertenza nazionale, da riprodurre in ogni luogo di lavoro dove convivano dipendenti e atipici, per l’estensione del salario minimo contrattuale agli atipici.
Non avremmo forse portato un granellino a favore di una crescita, piccola forse ma di grande significato per il futuro, dei redditi da lavoro in un Paese angosciato dalla povertà di chi lavora?
Può darsi che stia prospettando cose fuori dal mondo. Sarei felice se me lo si spiegasse. E’ un commento che chiedo, ai miei trenta lettori.