mercoledì 12 febbraio 2014

Sette buone ragioni per rifiutare la staffetta

Se non per convincere Renzi, almeno perché si lasci attraversare dal dubbio

1. Il programma
Non c'è. Non l'ha scritto il PD, mentre quello scritto da Letta non può essere il programma di Renzi (o ho capito male il senso del ricambio). E' dunque tutto da costruire. Il guaio è che sarà costruito DOPO, non PRIMA di aver fatto il governo. Non si è mai visto (tanto per ricordarlo a chi evoca la Grosse Koalition, nata da due mesi di trattative serrate). O pensiamo che il paese possa restare due mesi fermo, ad aspettare che Alfano ci spieghi se i figli di immigrati nati in Italia potranno prima o poi essere cittadini italiani o se si può recuperare un po' di progressività nell'imposizione fiscale?

2. Gli elettori
Senza voce in capitolo. Eppure, nell'anno trascorso dalle elezioni i cittadini hanno fatto le loro riflessioni sulla situazione che si è creata. Non amano il compromesso senza anima (piace al 24%). Sentono l'oppressione della crisi economica. Una parte sempre più larga sta prendendo coscienza del fatto che la crisi in Italia morde più forte che altrove perché il potere economico-finanziario non solo condiziona la politica ma, infettato dal potere criminale, è arrivato a permearla direttamente attraverso l'intreccio affaristico. Perciò, si aspetterebbero che la forze che si contrappongono a quell'intreccio si dimostrassero in grado di produrre una proposta convincente, condivisa, e una legge elettorale che consentisse loro di liberarsi dai condizionamenti e di unirsi per governare.
Se li si condanna a restare in silenzio per altri tre anni, per la terza edizione del compromesso senza anima, si producono invece effetti distruttivi, fino a minare le basi della convivenza civile.

3. I pericoli
La frustrazione degli elettori unita al disagio sociale sempre più grave possono innescare una miscela esplosiva. C'è stata un'evoluzione democratica delle forze dell'ordine (e delle forze armate, più aperte al mondo di altri apparati). Le propaggini del blocco corporativo-conservatore al loro interno sono, sì, solide, ben arroccate, tentate dall'eversione, ma numericamente minoritarie. Per quanto potremo però fare affidamento su questo equilibrio? La nostra storia passata ci insegna che i pericoli possono venire da “formazioni irregolari”, se così vogliamo chiamarle, e che le forze regolari, fedeli alle istituzioni, possono far fatica ad arginarle se la politica invece di guidarle le svia dai loro compiti. E' un pericolo remoto? Non è mai il caso di scherzare col fuoco.

4. L'Europa
La costruzione dell'Europa è a un punto critico che, nei fenomeni fisico-chimici, prelude in genere a una catastrofe, intesa come discontinuità imprevedibile. Tra pochi mesi, dopo le elezioni europee, sarà più chiaro se il cambiamento inevitabile porterà a più Europa, ossia un'intensificazione del processo di unità politica, o a un indebolimento dell'Unione. In questo caso si andrà ad un allentamento dei vincoli (già traballa l'accordo di Schengen, dopo il referendum svizzero) fino a possibili fratture: prima fra tutte, la possibile divisione tra euro forte e euro-sud. Nel 2011, quando l'Italia berlusconiana rischiava di far collassare l'intera Europa l'allarme è scattato per salvare, con l'economia italiana, quella europea (a caro prezzo!). Se cambia il vento l'Europa forte potrebbe invece scegliere di fare della debolezza italiana la leva per una dislocazione dei poteri e una ristrutturazione dell'assetto dell'Europa. In quel caso non solo non ci sarebbe nessun Draghi pronto a iniettare liquidità nel sistema bancario né alcun progetto di costituzione di Euro-bond per impedire la speculazione sui debiti sovrani ma si rischierebbe una manovra di strangolamento (non necessariamente attraverso lo spread, arma spuntata). Un governo inefficiente, di basso compromesso, in quel caso sarebbe, sì, aiutato: a fallire.

5. I precedenti
Il blocco corporativo-conservatore che tiene prigioniero il nostro paese ha già compiuto un'operazione simile 15 anni fa. Allora spaventava Prodi che con l'ingresso nell'euro e il patto per il lavoro con i sindacati aveva raggiunto il massimo consenso (mai più uguagliato in seguito) su un'azione riformatrice, pur tiepida ma di segno inequivocabile. Quel blocco mandò avanti D'Alema, facendo credere che si trattasse di uno spostamento a sinistra (complice Bertinotti) e sviando l'attenzione dai veri protagonisti (guidati da Cossiga), avendo ben chiaro come il programma si sarebbe ispirato a quello di Toni Blair. Oggi quel blocco è spaventato da quello che Renzi potrebbe (forse) fare vincendo le elezioni e governando con una maggioranza solida (quanto basta), attorno a un programma riformatore, pur tiepido. Non è detto che vada così ma quel blocco preferisce non correre rischi e manda avanti … Renzi stesso, consigliato all'uopo dai tanti che quel blocco gli ha disseminato intorno, per imbrigliarlo in una maggioranza saldamente controllata e quindi sbriciolarlo, contando sullo stato confusionale in cui versa il PD dopo lo sfaldamento del gruppo che ne aveva retto le sorti.

6. Il partito
Renzi avrebbe bisogno di un partito dietro le spalle, che potenzialmente rappresenterebbe una notevole forza organizzata, in grado di espandere il consenso, di intercettare istanze e elaborare collettivamente soluzioni. Ma quel partito è in condizioni disastrose. Anni di gestione oligarchica, di un'oligarchia per di più priva di qualunque senso di solidarietà interna, che lo ha usato come mero canale di costruzione di reti clientelari, è diventato un luogo di contesa perenne tra bande armate. La forza potenziale del suo corpo di attivisti è stata così azzerata. Potrebbe essere recuperata e rilanciata ma sarebbe necessaria, per riuscirci, una ricostruzione di lunga lena: diciamo un anno almeno, nella migliore delle ipotesi, con un impegno intenso e costante. Non se n'è ancora avuto sentore. Anzi, i congressi regionali stanno mettendo in evidenza come le dinamiche conflittuali, distruttive, stiano attraversando profondamente l'area che si era raccolta attorno a Renzi (per stravincere e così perpetuarsi). Dalle Marche al Molise, dal Lazio alla Campania, dalla Calabria alla Sicilia, si assiste a lotte fratricide tra esponenti delle diverse anime del renzismo, mentre il vecchio apparato che era rimasto fedele a Bersani e D'Alema sta cercando di ricollocarsi senza però sapere dove. In questa situazione lasciare il partito senza una guida riconosciuta, come intende fare Renzi nel caso traslocasse a Palazzo Chigi, renderebbe impossibile quel processo e il ramo su cui Renzi dovrebbe poggiare finirebbe per spezzarsi definitivamente.

7. La sinistra
Con il disfacimento del PD il percorso di ricostruzione, in Italia, di una sinistra normale, riconoscibile come tale nei cinque continenti, richiederebbe presumibilmente altri dieci anni (due cicli elettorali). Un quarto di secolo è già passato dalla caduta del Muro (e dalla fine del PCI). Va ad aggiungersi ai 45 anni della guerra fredda con la conventio ad excludendum (o fattore K) che avevano prodotto l'anomalia di una sinistra esclusa da ogni prospettiva di governo. Prima, 20 anni di repressione violenta operata dal fascismo. Un'eclissi lunga un secolo … e non è finita. Renzi, non farlo!

Per finire, l'alternativa.
Ci sarebbe.
Letta, dimissionario o sfiduciato, viene invitato a restare in carica per l'ordinaria amministrazione e, come governo di scopo, per modificare la legge elettorale entro sessanta giorni. 
Ben s'intende, dopo che il segretario del maggiore partito abbia notificato al Presidente della Repubblica l'impossibilità di formare un governo e la necessità di sciogliere le Camere così da votare entro l'estate.