Se non per convincere Renzi, almeno
perché si lasci attraversare dal dubbio
1. Il programma
Non c'è. Non l'ha scritto il PD,
mentre quello scritto da Letta non può essere il programma di Renzi
(o ho capito male il senso del ricambio). E' dunque tutto da
costruire. Il guaio è che sarà costruito DOPO, non PRIMA di aver
fatto il governo. Non si è mai visto (tanto per ricordarlo a chi
evoca la Grosse Koalition, nata da due mesi di trattative serrate). O
pensiamo che il paese possa restare due mesi fermo, ad aspettare che
Alfano ci spieghi se i figli di immigrati nati in Italia potranno
prima o poi essere cittadini italiani o se si può recuperare un po'
di progressività nell'imposizione fiscale?
2. Gli elettori
Senza voce in capitolo. Eppure,
nell'anno trascorso dalle elezioni i cittadini hanno fatto le loro
riflessioni sulla situazione che si è creata. Non amano il
compromesso senza anima (piace al 24%). Sentono l'oppressione della
crisi economica. Una parte sempre più larga sta prendendo coscienza
del fatto che la crisi in Italia morde più forte che altrove perché
il potere economico-finanziario non solo condiziona la politica ma,
infettato dal potere criminale, è arrivato a permearla direttamente
attraverso l'intreccio affaristico. Perciò, si aspetterebbero che la
forze che si contrappongono a quell'intreccio si dimostrassero in
grado di produrre una proposta convincente, condivisa, e una legge
elettorale che consentisse loro di liberarsi dai condizionamenti e di
unirsi per governare.
Se li si condanna a restare in silenzio
per altri tre anni, per la terza edizione del compromesso senza
anima, si producono invece effetti distruttivi, fino a minare le basi
della convivenza civile.
3. I pericoli
La frustrazione degli elettori unita al
disagio sociale sempre più grave possono innescare una miscela
esplosiva. C'è stata un'evoluzione democratica delle forze
dell'ordine (e delle forze armate, più aperte al mondo di altri
apparati). Le propaggini del blocco corporativo-conservatore al loro
interno sono, sì, solide, ben arroccate, tentate dall'eversione, ma
numericamente minoritarie. Per quanto potremo però fare affidamento
su questo equilibrio? La nostra storia passata ci insegna che i
pericoli possono venire da “formazioni irregolari”, se così
vogliamo chiamarle, e che le forze regolari, fedeli alle istituzioni,
possono far fatica ad arginarle se la politica invece di guidarle le
svia dai loro compiti. E' un pericolo remoto? Non è mai il caso di
scherzare col fuoco.
4. L'Europa
La costruzione dell'Europa è a un
punto critico che, nei fenomeni fisico-chimici, prelude in genere a
una catastrofe, intesa come discontinuità imprevedibile. Tra pochi
mesi, dopo le elezioni europee, sarà più chiaro se il cambiamento
inevitabile porterà a più Europa, ossia un'intensificazione del
processo di unità politica, o a un indebolimento dell'Unione. In
questo caso si andrà ad un allentamento dei vincoli (già traballa
l'accordo di Schengen, dopo il referendum svizzero) fino a possibili
fratture: prima fra tutte, la possibile divisione tra euro forte e
euro-sud. Nel 2011, quando l'Italia berlusconiana rischiava di far
collassare l'intera Europa l'allarme è scattato per salvare, con
l'economia italiana, quella europea (a caro prezzo!). Se cambia il
vento l'Europa forte potrebbe invece scegliere di fare della
debolezza italiana la leva per una dislocazione dei poteri e una
ristrutturazione dell'assetto dell'Europa. In quel caso non solo non
ci sarebbe nessun Draghi pronto a iniettare liquidità nel sistema
bancario né alcun progetto di costituzione di Euro-bond per impedire
la speculazione sui debiti sovrani ma si rischierebbe una manovra di
strangolamento (non necessariamente attraverso lo spread, arma
spuntata). Un governo inefficiente, di basso compromesso, in quel
caso sarebbe, sì, aiutato: a fallire.
5. I precedenti
Il blocco corporativo-conservatore che
tiene prigioniero il nostro paese ha già compiuto un'operazione
simile 15 anni fa. Allora spaventava Prodi che con l'ingresso
nell'euro e il patto per il lavoro con i sindacati aveva raggiunto il
massimo consenso (mai più uguagliato in seguito) su un'azione
riformatrice, pur tiepida ma di segno inequivocabile. Quel blocco
mandò avanti D'Alema, facendo credere che si trattasse di uno
spostamento a sinistra (complice Bertinotti) e sviando l'attenzione
dai veri protagonisti (guidati da Cossiga), avendo ben chiaro come il
programma si sarebbe ispirato a quello di Toni Blair. Oggi quel
blocco è spaventato da quello che Renzi potrebbe (forse) fare
vincendo le elezioni e governando con una maggioranza solida (quanto
basta), attorno a un programma riformatore, pur tiepido. Non è detto
che vada così ma quel blocco preferisce non correre rischi e manda
avanti … Renzi stesso, consigliato all'uopo dai tanti che quel
blocco gli ha disseminato intorno, per imbrigliarlo in una
maggioranza saldamente controllata e quindi sbriciolarlo, contando
sullo stato confusionale in cui versa il PD dopo lo sfaldamento del
gruppo che ne aveva retto le sorti.
6. Il partito
Renzi avrebbe bisogno di un partito
dietro le spalle, che potenzialmente rappresenterebbe una notevole
forza organizzata, in grado di espandere il consenso, di intercettare
istanze e elaborare collettivamente soluzioni. Ma quel partito è in
condizioni disastrose. Anni di gestione oligarchica, di un'oligarchia
per di più priva di qualunque senso di solidarietà interna, che lo
ha usato come mero canale di costruzione di reti clientelari, è
diventato un luogo di contesa perenne tra bande armate. La forza
potenziale del suo corpo di attivisti è stata così azzerata.
Potrebbe essere recuperata e rilanciata ma sarebbe necessaria, per
riuscirci, una ricostruzione di lunga lena: diciamo un anno almeno,
nella migliore delle ipotesi, con un impegno intenso e costante. Non
se n'è ancora avuto sentore. Anzi, i congressi regionali stanno
mettendo in evidenza come le dinamiche conflittuali, distruttive,
stiano attraversando profondamente l'area che si era raccolta attorno
a Renzi (per stravincere e così perpetuarsi). Dalle Marche al
Molise, dal Lazio alla Campania, dalla Calabria alla Sicilia, si
assiste a lotte fratricide tra esponenti delle diverse anime del
renzismo, mentre il vecchio apparato che era rimasto fedele a Bersani
e D'Alema sta cercando di ricollocarsi senza però sapere dove. In
questa situazione lasciare il partito senza una guida riconosciuta,
come intende fare Renzi nel caso traslocasse a Palazzo Chigi,
renderebbe impossibile quel processo e il ramo su cui Renzi dovrebbe
poggiare finirebbe per spezzarsi definitivamente.
7. La sinistra
Con il disfacimento del PD il percorso
di ricostruzione, in Italia, di una sinistra normale, riconoscibile
come tale nei cinque continenti, richiederebbe presumibilmente altri
dieci anni (due cicli elettorali). Un quarto di secolo è già
passato dalla caduta del Muro (e dalla fine del PCI). Va ad
aggiungersi ai 45 anni della guerra fredda con la conventio ad
excludendum (o fattore K) che avevano prodotto l'anomalia di una
sinistra esclusa da ogni prospettiva di governo. Prima, 20 anni di
repressione violenta operata dal fascismo. Un'eclissi lunga un secolo
… e non è finita. Renzi, non farlo!
Per finire, l'alternativa.
Ci sarebbe.
Letta, dimissionario o sfiduciato,
viene invitato a restare in carica per l'ordinaria amministrazione e,
come governo di scopo, per modificare la legge elettorale entro
sessanta giorni.
Ben s'intende, dopo che il segretario del maggiore
partito abbia notificato al Presidente della Repubblica
l'impossibilità di formare un governo e la necessità di sciogliere
le Camere così da votare entro l'estate.